La poetica del rimpianto della vita non vissuta e di ciò che poteva essere e non è stato nella silloge La lacrima del poeta ferisce il cuore di Rocco Giuseppe Tassone
Lacrima, pianto, silenzio, morte, rimembranza, sogno, tempo, eternità, malinconia, solitudine
Lacrima, pianto, silenzio, morte, rimembranza, sogno, tempo, eternità, malinconia, solitudine: sonno queste le parole che il poeta calabrese Rocco G. Tassone sembra preferire e amare di più quando l’io poetico narrante racconta le proprie vicende e il proprio dolore di esistere. A noi sembra che il nocciolo della poetica di Tassone – poeta di lungo corso e di alto spessore intellettuale – sta nel rimpianto di una vita non vissuta, nel malinconico riflettere e meditare su ciò che poteva essere e non è stato, e la grandezza consiste nel far comprendere questo, al lettore, il più delle volte senza che lo dica esplicitamente ma facendolo intuire. Per questo ci appare azzeccato il titolo della silloge che racchiude oltre vent’anni di ricerca poetica, per un autore che ha alle spalle oltre quarant’anni di passione per la poesia, unica, autentica e fedele compagna che lo assiste e gli sta vicino da sempre: La lacrima del poeta ferisce il cuore. Di solito, i poeti non ridono ma piangono, esprimono con i loro versi la propria sofferenza, il proprio dolore, le virgiliane lacrime delle cose della vita proprio per rendere universale questo dolore e affinché nei loro versi più di uno possa riconoscersi e identificarsi.

In Infinitesimi planetari l’io poetico auspica che quando quel giorno verrà, cioè il giorno della morte, vuole andarsene silenziosamente solo, nell’appagata consapevolezza d’essere stato per un istante / un insignificante granello / degli infinitesimi planetari! Solo il poeta può giungere a una tale conclusione e anche a quella secondo cui solo il poeta può comprendere la grandezza della solitudine e di aver tanto imparato nell’ascoltare il silenzio (Solo il Poeta può nel canto). E, così, tra noia e malinconia, il poeta va col pensiero al passato, a ciò che è stato e anche a ciò che poteva essere e non è stato, e conclude che il lungo treno della vita finisce con la morte e che a volte si muore già morti proprio perché non siamo stati vivi durante la nostra vita e rimpiangiamo tutta la vita che, per varie ragioni, non abbiamo vissuto (A volte si muore già morti).
Mentre sente che la Poesia è una strada senza meta e che una lacrima accarezza il [suo] viso (La Poesia), l’io poetico narrante invoca la Musa ispiratrice e le chiede di trafiggere col suo pugnale il cuore, ormai vecchio, / in un ultimo verso / affinché felice possa addormentarsi in eterno! (Il tuo silenzio è un tormento), e questo perché ormai gli appare sempre più chiaro e luminoso che: Liberamente ho scelto / di sorridere, piangere, vivere, / percorrere la strada e morire / in compagnia della Poesia! / Lei sola riesce a sorridere, piangere, / camminare e morire assieme a me. / A lei sola è dato baciare le mie labbra… (Il nostro pianto nella stessa lacrima). Versi, questi, che sono una vera e propria dichiarazione di poetica, una vera e propria dichiarazione d’amore eterno per la Poesia, la dolce compagna che mai non muore dell’effimera nostra esistenza (Morirò contando le lune). Il pensiero corre sempre alla morte, alla vita che appare ormai verso la fase terminale e l’io poetico si sente pronto per l’ultimo e sconosciuto viaggio, che vuole fare in estremo silenzio e in estrema solitudine, in un infinito che non conosciamo ma di cui avvertiamo la presenza: La valigia della mia anima / è pronta / per il suo incognito viaggio. / Nell’infinito: silenzio! […]/ Parca e mesta / nella solitudine / in cui è nata / ritorna a vagare/ in eterno! / nell’infinito: silenzio! (Nell’infinito: silenzio).
La vita e la morte e il loro eterno rincorrersi sono sempre presenti al vecchio Poeta / ormai al tramonto (Amo il tuo silenzio), il vecchio Poeta che, nel silenzio della notte, avverte la notte come colei che guida il passo inesorabile della morte e, pertanto: ascolto il silenzio! (Ascolto il silenzio). Notte, silenzio, morte: perché ormai svanisce il desiderio, è vana ogni speranza e non resta che l’inutilità del vivere / senza più passioni (Bianca pagina), e non resta che il desiderio di voler partire per un viaggio lontano (la morte) per dimenticare d’essere, dimenticare di vivere (Vorrei partire per un viaggio lontano). L’io poetico è giunto ormai alla piena consapevolezza che è crudele sognare / quando è impossibile vivere (Com’è crudele sognare) e non si ha più tempo per l’amore (È tornata primavera) e, insomma, i sogni alla mia età / sono proibiti o sono incubi (I sogni alla mia età sono proibiti o sono incubi). Il giorno tende al tramonto, cioè la vita volge al termine e all’io narrante non resta che prendere atto che: rimango assorto osservatore / nella solitudine / che lentamente mi accarezza (Il giorno tende al tramonto), una solitudine in cui acquista enorme valore ciò che può dirci il silenzio di una lacrima (Il silenzio di una lacrima) a lui, al nostro io narrante che subito dopo ci dice che in punta di piedi si è affacciato / dal davanzale per guardare / il brulichio della vita […], che in punta di piedi ha spiato il mondo e che, ora, in punta di piedi vuole accomiatarsi dal mondo e addormentarsi con le sue passioni (In punta di piedi).
Intanto, mentre lo sguardo del poeta si fissa sulla luna, si avvede che si fa sempre più grande il dilemma della vita (La luna) e la vita sempre più morte (La mia vita si fa morte) tra lacrime, silenzio e solitudine, perché il tempo scorre inesorabile: non ho più molto tempo e il traguardo è sempre più vicino (L’essenza della tua passione). Dopo il dolore della vita giunge il dolore della morte e avvertiamo intorno a noi il luttuoso silenzio di morte (Paesi) e, annodando brulli pensieri, siamo costretti a constatare che: quanto [mi] costa esser nato! (Quanto mi costa esser nato). Però, la Poesia resta sempre l’unica àncora di salvezza, fino alla fine e, così, l’io narrante la invoca, invoca la Musa e dopo averle detto: Resterò attaccato alle tue labbra, / oh Musa, / finché l’ultimo respiro non mi abbandonerà, conclude con il desiderio-auspicio che: solo mi accompagni nella bara / un foglio ed una penna / ed il mio animo avrà quiete! (Resterò attaccato alle tue labbra). E se l’io poetico sente di potersi dire assolutamente certo del nulla, dichiara anche di bramare Dio, di cercare disperatamente Dio e di essere un ateo che ama Dio (Un ateo che ama Dio) e questo proprio perché nessuno più dell’ateo vorrebbe poter credere in Dio, vederlo e parlare con Lui, magari per chiedergli perché esistono il male, il dolore e la sofferenza e perché sulla Terra non prevalgono l’amore, la pace e la giustizia e gli uomini sono infelici nonostante il sacrificio di Cristo.
Oh, come sarebbe bello poter guardare dal buco della serratura / non il limite della realtà / bensì l’eterno infinito!, esclama l’io narrante (Curiosità), lui così consapevole che morendo / respirerò la vita / che non ho vissuto / mi accorgerò d’esser nato, poi chiudendo gli occhi, / vedrò l’Infinito (Una eco mi ritorna) e, alla vita che ormai sembra arrivata alla fine, sente di poter dire: Ho lottato con la vita, / mi inchino di fronte al mistero, / abbraccio, come sogno infinito, / la morte per l’eternità! (Io mi fermo qui).
L’io narrante, alla fine, conclude lanciando nella bottiglia un messaggio-invito al suo lettore: l’invito a vivere la vita così come viene, a cogliere l’occasione, a vivere comunque sia perché il tempo scorre impietoso e rimandare a domani potrebbe risultare deleterio, anche perché si vive all’insegna delle incertezze e, dunque, occorre cercare di vivere, vivendo il passato in funzione del futuro, non ponendo freno ai nostri sogni, ai nostri desideri, magari piangendo o ridendo, da svegli o da dormienti, correndo o restando fermi ma sempre con la voglia di vivere: per non morire, per sentirsi vivi: Se piangi o ridi, / se dormi o vegli, / se corri o resti fermo: / il tempo scorre e / domani è troppo tardi / per fare quello che / dovresti fare oggi! / Guarda il passato solo / in proiezione del futuro, / vivi l’oggi / nell’incertezza del domani. / ogni passo un’impronta / che non sia freno dei tuoi sogni: / piangi, ridi, dormi, veglia / corri, resta fermo ma / vivi! (Se piangi o ridi).
Termina così il racconto di una vita in versi, versi che restano nel nostro cuore e nella nostra mente e che, tra classicità e modernità, richiamano alla mente quelli di grandi autori come Petrarca, Leopardi e, più vicini a noi, Montale e Ungaretti ma, il nostro poeta, ci lascia un’impronta decisamente originale e inconfondibile.
*Rocco Giuseppe Tassone è nato a Candidoni (RC) e risiede a Gioia Tauro. Laureato in Scienze Biologiche, è titolare della Cattedra di Scienze Naturali presso i licei. Con decreto del P.R. del 27 dicembre 2003 è stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Nel 2024 è stato insignito del Premio Segni di Pace 2024 (Nobel Italiano per la Pace). Scrive attivamente ed ininterrottamente dal 1976. Ha pubblicato, ad oggi, 79 libri tra poesia, saggistica, scientifica, narrativa, teatro, un vocabolario del dialetto calabrese, oltre a vari testi di glottologia, etnografia ed iconografia religiosa. È accademico in svariate istituzioni socio-culturali. Poeta, storico, scrittore poliedrico e divulgatore scientifico, collabora a varie riviste di carattere storico-letterario ed ha vinto i più importanti premi letterari in Italia e nel mondo. Il Tassone è oggi considerato il massimo esponente vivente del dialetto calabrese e dell’etnografia religiosa. Numerosi sono i riconoscimenti Honoris Causa a carattere anche internazionale. Presidente dell’Università Ponti con la Società, ha fondato diversi Premi Letterari di cui è Presidente come il Premio storico-letterario Metauros, il Premio Teresa Cognetta e il Premio Dulbecco.
*Salvatore La Moglie, scrittore