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Donne, eroine, martiri delle foibe

C’è un universo femminile che ruota attorno alla terribile tragedia delle foibe, in cui morì un numero ancora non precisato, ma probabilmente sottostimato, di italiani, torturati e uccisi unicamente per la loro appartenenza a una nazione, condannata in quanto tale e perché associata al Fascismo.

Si tratta di donne che fuggirono, non senza remore, abbandonando la propria terra e la propria casa pur di non incorrere in morte certa; tra queste, vi fu Dionisia Eugenia Pellizzer, originaria di Rovigno, che lasciò la sua città a soli tre anni insieme alla famiglia, trovando asilo per sei mesi in un campo profughi precedentemente riservato agli ebrei. Ma si tratta anche di vere e proprie eroine, come Amalia Ardossi, infoibata a Terli per aver voluto seguire il marito, Francesco Lorenzin, nell’infausta sorte. E così fu. Quando venne trovato, il corpo della donna aveva i polsi stretti col fil di ferro al braccio del compagno, secondo una prassi in uso tra i condannati. I partigiani titini, infatti, erano soliti legare le vittime tra di loro e porle in fila, suscitando una reazione a catena; che poi il malcapitato, primo della fila, fosse costretto a correre fino a trovare la voragine o che fosse colpito in prossimità di questa, poco importa: le foibe erano una forma rapida ed economica di strage di massa, permettendo di uccidere in poco tempo un gran numero di persone, unite fisicamente tra di loro. Quello che resta di Amalia è l’immagine del cadavere adagiato accanto a quello di altre tre vittime di sesso femminile, le sorelle Radecchi, anch’esse trucidate e gettate nella medesima foiba durante gli eccidi avvenuti tra settembre e ottobre 1943. Albina, Caterina e Fosca avevano rispettivamente 21, 19 e 17 anni e Albina era incinta. Erano semplici operaie di una fabbrica di Pola, “colpevoli” di essersi più volte fermate – dopo il lavoro – a chiacchierare con i militari della Regia Aeronautica di Fortuna (G. Mellace, La vera storia delle foibe. Una grande tragedia dimenticata, Il Giornale, 2005).

Norma Cossetto, invece, era una giovane universitaria istriana, che fu torturata, violentata e, infine, gettata nella foiba di Villa Surani, vicino ad Antignana. Uccisa dai partigiani del Maresciallo comunista Josip Broz Tito nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943, era solo un’aspirante insegnante, che si rifiutò più volte di collaborare con il Movimento Popolare di Liberazione e fu punita per questo, oltre che per essere la figlia del segretario del Fascio di Visignano e podestà della medesima cittadina, Giuseppe Cossetto. Torturata, stuprata e umiliata, venne gettata viva in una cavità profonda 135 m., dove fu trovata il giorno 11 dicembre 1943, dopo che un pastore si era imbattuto casualmente nella foiba (F. Sessi, Foibe rosse. Vita di Norma Cossetto uccisa in Istria nel ’43, Marsilio, 2007).

Come lei “pagarono” Giuseppina e Alice Abbà, rispettivamente madre e figlia del vigile urbano Giorgio, infoibato a Vines dai partigiani di Tito nel settembre 1943; le due donne furono sequestrate dai titini e poi gettate nella foiba di Moncodogno perché Giuseppina aveva cercato di avviare delle indagini al fine di scoprire i responsabili dell’omicidio del marito. Alice aveva solo 13 anni e di lei fu dichiarata la morte presunta, dal momento che il corpo non venne mai trovato (in foto assieme ai genitori Giorgio e Giuseppina).

E poi ci sono le voci delle superstiti, come quella di Egea Haffner, nota anche come la “bambina con la valigia”, perché così appare in una fotografia scattata nel 1945, anno della scomparsa del padre, quando inizia la sua vita da esule. Lei ha potuto – a differenza delle altre donne – fornire una testimonianza dell’esilio, di cui quell’immagine è diventata un’icona, come la stessa Haffner ha raccontato. Era solo una foto ricordo scattata prima di partire ed è diventata il simbolo di una storia “di cui nessuno parlava” fino a qualche anno fa: la storia di Egea e degli Italiani del confine giuliano (E. Haffner-G. Alvisi, La bambina con la valigia. Il mio viaggio tra i ricordi di esule al tempo delle foibe, Piemme Edizioni, 2022). 

H. Chubatsiuk-G. Dal Savio, “Sorelle (Albina, Caterina, Fosca, Norma, Egea)”

Infatti, “prima nessuno voleva ascoltare”, ha spiegato pure Angelina Bratovich, riferendosi agli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, quando il sipario calò sulle vicende avvenute sul confine giuliano. Anche lei scampata alla condanna certa delle foibe, in L’Istria di Gina ha narrato le proprie “disavventure” sotto forma di intervista all’autore del libro, Giuseppe Crapanzano, per cercare di smuovere le coscienze degli italiani e “far capire ai giovani quanto sia bello vivere in pace e nel rispetto reciproco” (G. Crapanzano, L’Istria di Gina, Booksprint, 2017, p. 180). E poi c’è Mafalda Codan, la “miracolata”. Insegnante, fu arrestata il 7 maggio 1945 perché italiana e “nemica del popolo slavo”; lei, però si salvò perché la nave su cui la caricarono naufragò. Mafalda si buttò in mare e, aggrappata a una botte galleggiante, raggiunse la terraferma. Nuovamente catturata e imprigionata, subì un processo sommario a seguito del quale venne condannata. Solo il 10 giugno 1949 – dopo numerose traversie – fu liberata grazie a uno scambio tra la Croce Rossa slava e quella Italiana. Il diario redatto dalla ragazza, pubblicato all’interno di Sopravvissuti alle deportazioni in Jugoslavia (Bruno Facchin Editore, 1997),costituisce una testimonianza che, per importanza e valore simbolico, può essere accostata al Diario di Anna Frank, libro-simbolo di un’altra grande tragedia dell’umanità, quella del genocidio ebraico.

Coraggiose, caparbie ed eroiche, queste madri, mogli, figlie erano prima di tutto donne, che – pur non conoscendosi – furono accumunate dalla stessa drammatica sorte, “sorelle” nella triste sventura.

*Valentina Motta, scrittrice

Valentina Motta