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L’esodo giuliano dalmata, il dramma della frontiera orientale

Dopo il secondo conflitto mondiale molti istriani, fiumani e dalmati, per una serie complessa di motivi, furono espulsi o costretti ad abbandonare in massa le proprie terre, passate dal governo italiano alla Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia che, per ordine del dittatore Tito, giustiziò numerose persone accusate di essere fasciste. La maggior parte degli arrestati venne uccisa senza processo e gettata nelle foibe, le profonde voragini carsiche disseminate in tutto il territorio istriano. 

Gravi bombardamenti, eccidi e infoibamenti si verificarono anche in varie località̀ dalmate. A Zara, per es., vennero eliminati centinaia di italiani molti dei quali furono uccisi mediante annegamento in mare. L’ondata di violenza più grave si scatenò alla fine del conflitto e nei mesi immediatamente successivi. Il 1° maggio 1945 gli jugoslavi occuparono Trieste e il 3 maggio, quasi contemporaneamente all’entrata delle truppe di Tito, sia a Trieste che a Fiume iniziarono a verificarsi le prime uccisioni sommarie dietro la “regìa” della polizia segreta jugoslava, la famosa OZNA. È difficile, se non impossibile, calcolare con esattezza il numero delle vittime uccise e gettate nelle foibe per l’evidente mancanza di dati certi, non essendo mai state ritrovate liste o elenchi di condannati da parte jugoslava. Si parla di 12.000 italiani dispersi. Dall’estate del 1946, tra gli italiani della Venezia Giulia e di Fiume iniziò a manifestarsi concretamente l’idea di abbandonare in massa le proprie terre, oramai saldamente in mano jugoslava. L’eccezionale fenomeno migratorio dall’Istria e dalle altre terre adriatiche fu definito un vero e proprio “esodo” perché coinvolse un intero popolo. Nel giro di pochi anni, la lingua e la cultura italiana rappresentò un pericolo per la Jugoslavia, pericolo al quale occorreva opporsi con ogni mezzo.

Ai giuliano-dalmati non restò altra scelta che la via dell’esodo verso l’Italia e verso le democrazie occidentali per ricostruirsi una vita al riparo dalle logiche repressive imposte dal regime comunista jugoslavo. Al momento della partenza gli esuli non potevano portare con loro i documenti ma solo il foglio di via. Per questo motivo molti non poterono dimostrare, una volta giunti in Italia, di essere proprietari di determinati beni e persero definitivamente tutte le loro proprietà. Infine accadde che ad alcuni membri della stessa famiglia venisse concesso il permesso e ad altri negato. Questo creò grandi drammi famigliari. Le partenze dei giuliano-dalmati si concentrarono in due grandi ondate. Il primo grande esodo del dopoguerra fu quello dalla città di Fiume. Il secondo grande esodo avvenne dalla città di Pola. Molto grave fu l’attentato terroristico accaduto sulla spiaggia cittadina di Vergarla dove nell’agosto 1946 avvenne lo scoppio di alcune mine e munizioni che costò la vita a circa un’ottantina di persone. 

La tragedia alimentò la psicosi di una congiura slavo-comunista nei confronti degli italiani. Non restava che partire e ben 28.000 polesani lasciarono la loro città nel giro di tre mesi. Le popolazioni in fuga erano mal viste dagli stessi italiani. La solitudine dei profughi era profonda. In Italia poco fu fatto per affrontare i gravi fattori di disagio sociale e psicologico. L’ assistenza agli esuli a quell’epoca in Italia consisteva nel fornire alimenti e nel garantire il ricovero notturno. In realtà la separazione forzata dalla propria terra di origine e dal proprio contesto sociale procurava una serie di disagi morali e interiori molto gravi; la stessa condizione di profugo assistito dalla carità pubblica era un fatto di per sé triste e umiliante.  Vecchie caserme, ex campi di prigionia del periodo bellico e scuole furono adattati per accogliere in molte città d’Italia, in assoluta promiscuità e in precarie condizioni igienico-sanitarie, centinaia di persone che restarono a lungo separate dai parenti, dalle amicizie della località d’origine e furono spesso accolti con diffidenza dalla popolazione del luogo che li ospitavano. I centri di accoglienza furono organizzati in diverse città d’Italia.  In Abruzzo ricordiamo il centro di accoglienza di Chieti presso la caserma Berardi dove, durante la seconda guerra mondiale, c’era stato anche un centro per gli sfollati. La città di Chieti infatti era stata l’unica in Italia, dopo Roma, ad essere dichiarata “città aperta”. 

*Marilisa Palazzone, docente

Marilisa Palazzone