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Quiet quitting, un fenomeno in crescita

La perdita d’interesse verso la propria professione e la fuga dal lavoro

Negli ultimi anni si è acutizzato il fenomeno del quiet quitting, due parole americane la cui traduzione letterale è “abbandono silenzioso”, ma che in pratica riflette un modus operandi di perdita d’interesse verso la propria professione, impegno lavorativo ridotto e limitato alle sole responsabilità contrattuali, rifiuto di straordinari; il tutto controbilanciato da un’oculata gestione del proprio tempo.

Il quiet quitting è nato negli Stati Uniti, poi si è diffuso velocemente anche nel mondo occidentale e si è affiancato al great resignation (grande dimissione), cioè una fuga dal lavoro che in Italia si traduce in più di due milioni di dimissioni volontarie nel 2022 e altrettante nel 2023; sono dati ufficiali dell’Inps che non ha ancora consolidato il 2024, ma basandosi sui numeri dei primi nove mesi prevede un dato simile agli anni precedenti. 

Le ragioni di entrambi i fenomeni sono da ricercare negli ultimi decenni. 

Nel secolo scorso un impiegato o un operaio entrava in una fabbrica con un forte attaccamento al posto di lavoro e con la garanzia di uscirne con un bel pensionamento. Un legame profondo tanto che la fabbrica era sentita come parte di sé; inoltre su questa forma di fidelizzazione gli industriali riuscivano a trattenere le professioni che diventavano sempre più qualificate.  

All’inizio degli anni 2000 è nato il concetto di lavoro flessibile che si riassume in un impegno nel tempo strettamente necessario per la realizzazione di un progetto. Tale flessibilità, unita al concetto di mobilità, portava a una maggiore libertà personale ma anche ad altri aspetti: la cancellazione del lavoro fisso per un più alto livello di precarietà, una spinta a incrementare la propria attività lavorativa per motivi economici e per eccellere sugli altri professionisti del settore, la ricerca spasmodica di più opportunità di business. In sintesi un maggiore individualismo, la spersonalizzazione dei rapporti individuali e gli impegni prolungati alla sera e nei weekend.  

Successivamente c’è stato il periodo della pandemia che ci ha dato il tempo di riflettere sulle nostre priorità, sul benessere personale e sul tempo trascorso con la famiglia. Inoltre questa emergenza sanitaria ha causato in molti lavoratori una forma di depressione dovuta a orari di lavoro estesi, isolamento fisico, pressioni lavorative legate a ristrutturazioni aziendali o incertezze economiche, ansia per la salute personale e dei propri cari.  

Molti lavoratori hanno iniziato a dare la priorità a un sano equilibrio tra lavoro e vita privata privilegiando quest’ultima. In conclusione il Covid ha agito da catalizzatore del quiet quitting accelerando un cambio di mentalità e acutizzando alcune insoddisfazioni latenti nelle strutture lavorative tradizionali. 


*Enrico Casartelli, giornalista