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Antonella Vairano, Il bene profondissimo, Controluna Edizioni, 2024

Una poesia dunque che si impone all’urgenza dell’attualità e che seduce per la sua discrezione nel farsi “bella e buona”

In una società che fa del materialismo e del consumismo l’emblema di una relazionalità liquida ed edonistica, tornare a parlare di bene appare sempre più come una piacevole quanto necessaria infrazione ai valori (o disvalori?) della nostra contemporaneità. E Antonella Vairano, ne Il bene profondissimo (Controluna Edizioni, 2024, con prefazione a firma di Sergio Daniele Donati) fa della poesia l’assunto di base di un bene che per l’autrice si definisce appunto profondissimo, quanto più necessario e urgente perché ha origine nell’afflato lirico della poesia stessa.

Una poesia dunque che si impone all’urgenza dell’attualità e che seduce per la sua discrezione nel farsi “bella e buona”, nel richiamare nelle sue istanze etiche e programmatiche quel bisogno di senso e bellezza, quell’ideale morale di educazione e di condivisione di istanze positive che per gli antichi greci risponde all’universo della kalokagathìa (καλοκαγαθία), ovvero a quella perfetta armonia tra ciò che è bello e ciò che è buono. La poesia della Vairano nasce tuttavia della certezza di un dissidio difficile da sanare, tra dato reale e dato ideale, da una sofferta aderenza alla transitorietà del mondo e della vita, cui tuttavia la poesia può essere antidoto e cura: «La bellezza mi fa male / come un altare di rose / claudicante» (Bellezza, p. 34). Una poesia dunque che si fa ricerca di bellezza e di significato, in cui la tentazione all’esistere si pone sempre come tentativo di approdare all’humus di un sentire che si ammanta di verità, ma sempre all’insegna di una umanità rinnovata nelle sue piccole grandezze quotidiane: «Ci sono voci / di cui tremano le cose / che parlano per ultime ora o più tardi/ Nelle retrovie / io non sono io, né posso avere casa» (Ferme, pp.50-51).

La silloge della Vairano è dunque una domanda etica fondamentale sul significato della vita e della scrittura poetica, che chiude con l’ammissione estatica: «Come si può non amare il sangue lento dei Poeti?». I poeti, per l’autrice, sono i viandanti senza patria, costretti ad un viaggio incerto ed estatico e sempre inappagato e tuttavia pieno di pathos, con il verbo ostinato e rivelatore tra le mani incrociate. Una raccolta dunque che conduce verso i luoghi del destino, ma quali sono questi luoghi se non quelli di un amore che autentifica l’io e l’espressione poetica, e dunque rappresenta la chiave che la poetessa ha per dialogare con l’alterità e per riconoscersi continuamente? È l’amore la fonte di quel bene profondissimo che attinge alla realtà ultima delle cose, che si fa fonte di bellezza e di bontà, una bontà che autentifica ancora il sogno, ancora la cura, ancora l’essere così, pienamente, voce d’amore: «Seduti/ uno ad uno. /Sciolti/ due a due» (Cura, p. 23).  

*Laura D’Angelo, scrittrice, poetessa