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Tradizioni, riti e sapori della Pasqua a Messina

Le tradizioni messinesi legate alla Pasqua hanno origini remote. Il tempo, fatalmente, le ha un po’ sfiorite, e tuttavia, non poche sono giunte a noi pressoché immutate.

Il Giovedì Santo, nel pomeriggio e fino a tarda notte, la visita ai “Sepolcri”. Nelle chiese, un altare addobbato con fiori e tendaggi recava in alto il simbolico Sepolcro di Cristo, e, alla base, dei piatti con fitti teneri germogli – i sapucchi – ottenuti lasciando al buio, in poca acqua, semi vari: di grano, riso, legumi… Evidente l’allusione alla primavera, al risveglio della Natura, al rigenerarsi della vita. Il seme ha un forte valore evangelico: il chicco di grano che muore produce frutto. La consuetudine imponeva di visitare i “Sepolcri” in un numero dispari di chiese (una, tre, cinque, sette…). Adesso, il Giovedì Santo non si evoca più Gesù nel sepolcro, bensì la “Reposizione” del Santissimo Sacramento e l’istituzione dell’Eucarestia, dell’Ordine Sacro, e la Carità che si fa servizio. Ancora oggi, i fedeli, nonostante queste variazioni rituali, continuano a “visitare” il Cristo sepolto con grande partecipazione. 

All’imbrunire del Venerdì Santo, ancora oggi devotamente seguita, si snoda la processione delle Varette, imponenti gruppi statuari raffiguranti momenti salienti della Passione.

Prima del Concilio Vaticano II, alle undici del mattino del Sabato Santo, le campane a festa annunciavano la Resurrezione, che era quindi vissuta in piena luce. Si spalancavano le porte delle case, ci si abbracciava coi vicini. Si cancellavano d’incanto i malanimi, (i malucori), gli occhi brillavano, s’inumidivano. Momenti d’intensa commozione.  I ragazzi, armati di pietre, battevano giosamente sui cancelli. 

Si usava lanciare in aria le ciambelle di pan dolce guarnite di uova sode (i cuddùri cu ll’ova), e si offrivano i resti in segno di pace: A Gloria sunau, a cuddùra si spizzau, si spizzau a mmossa a mmossa, a cuddùra è senza ossa. 

Il termine dialettale cuddùra – spiega il prof. Daniele Macris – deriva dalla voce greca collùra, in italiano, appunto, ciambella.  A cuddùra cu ll’ova era anche il regalo di Pasqua del fidanzato alla fidanzata; e più uova vi erano incastonate, più il promesso sposo era magnificato, specialmente dalla suocera.

La Domenica di Pasqua, al mattino, l’antica festa di Spampanati. Ad aprirla, ieri come oggi, la mattutina processione delle varette di Gesù Risorto e di Maria,custodite da sempre nella chiesa della Mercede di via Tommaso Cannizzaro. E nel tardo pomeriggio, presso lo stesso tempio, l’”assalto” all’albero della cuccagna (in messinese, a ntinna), nella colorata cornice delle bancarelle dei venditori di calia, di mustazzoli, di giaurina…

Una curiosa specialità locale, ormai dimenticata, a giaurina, di incerta origine (Vedi, ad esempio, Etymologicum siculum di Giuseppe Vinci, Messina 1759, oppure Vocabolario siciliano etimologico di Michele Pasqualino, Palermo, 1790). A giaurina consisteva di un impasto nel quale prevaleva il miele. Era “lavorata” sul posto e venduta a bastoncini, un po’ untuosi e dal sapore inconfondibile. 

Il Lunedì dell’Angelo, Pasquetta, era d’obbligo un tempo la gita a Calvaruso, meta il santuario dell’“Ecce Homo”. E poi – consuetudine quasi del tutta dimenticata- la colazione sull’erba: uova sode, frittate, carciofi bolliti, formaggio pepato musciu, salame di casa nostra…Immancabili, le fave fresche, i fafaiani.

I tipici piatti pasquali messinesi. Intanto un piatto modestissimo, a pasta cu spezzi e muddìca. Si preparava in particolare il Venerdì Santo, quand’era di rigore mangiar di magro. Semplicemente pasta (spaghetti o linguine o mafalde), ben scolata e condita con un filo d’olio, un pizzico di pepe nero e, a volontà, del pangrattato appena dorato, con poco olio, a fuoco lento. 

La Domenica di Pasqua, il capretto (non l’agnello!) in umido: la carne a pezzi, anche il fegato e il cuore dell’animale, e patate, molto prezzemolo, olio d’oliva, sale e pepe nero.

Ma soprattutto u ciusceddu, piatto rituale celeberrimo, che si preparava solo a Pasqua. Notiamo subito che si tratta di una zuppa, e non di uno sformato come alcuni oggi ritengono. Risale ad epoca lontana, è presente, per esempio, nel già citato Vocabolario Siciliano del Pasqualino: “E’ una sorta di vivanda fatta d’uova, cacio e pane grattucciato cotti nel brodo”, spiega il Pasqualino, per il quale il termine ciusceddu potrebbe derivare dal latino tardo juscellum (intingolo, brodo di ossi). Secondo Vincenzo Mortillaro (Nuovo dizionario siciliano-italiano, Palermo, 1847), il ciusceddu è “vivanda brodosa composta di pane grattato con intriso di uova dibattute, prezzemolo ed aromi, tutto pria mestato, e poi bollito in brodo di carne o in acqua con un poco di strutto”. 

Ma ecco, del ciusceddu, una genuina ricetta di famiglia. Per quattro persone: 300 grammi di carne bovina magra tritata; 1 chilo circa di ossi di vitello; 250 grammi di ricotta fresca e morbida; 6 uova; 100 grammi di pangrattato; 50 grammi di formaggio piccante grattugiato; 50 grammi di parmigiano grattugiato; 2-3 pomodori maturi ( un tempo, quando i pomodori freschi a Pasqua non c’erano, alcuni pomodori a scocca); 1 cipolla; sedano; prezzemolo; sale; pepe nero macinato. Far bollire gli ossi in acqua poco salata, con i pomodori a spicchi, la cipolla a grosse fette, del sedano. Attendere che il brodo si restringa abbastanza, colarlo e lasciarlo da parte in casseruola. Mettere insieme la carne tritata, il pangrattato, il formaggio piccante, due uova (bianchi e rossi), del prezzemolo sminuzzato, sale e pepe. Amalgamare il tutto con le mani inumidite e formare polpettine grosse come noci. Portare il brodo ad ebollizione, calarvi una ad una le polpettine, far cuocere a fuoco moderato. Sbattere ben bene le quattro uova rimaste (bianchi e rossi), aggiungere pepe e sale. Attendere che il brodo si restringa fino a superare di un dito circa il livello delle polpette, e versarvi le uova sbattute. Coprire la casseruola, e lasciare che le uova si aggrumino. Quindi calare nel brodo la ricotta, spargervi il parmigiano e rimestare lievemente. Togliere dal fuoco dopo cinque minuti. Il ciusceddu è pronto. Portarlo a tavola fumante, e consumarlo, se si vuole, insieme con dei crostini.Crostini che in passato altro non erano che fette di pane raffermo abbrustolite sulla brace. A proposito dell’uso delle polpettine nel ciusceddu, possiamo ipotizzare che l’uso nella cucina peloritana di polpettine di carne (i pallini in brodo), possa derivare proprio da questo antico piatto. 

I dolci. Abbiamo già detto delle ciambelle con le uova sode. Aggiungiamo i pan di cena, ricoperti di ciciulena (semi di sesamo), e i quaresimali, profumati biscotti friabili con mandorle (da non confondere con i piparelli). Tipico, il candido agnello semplicemente di pasta martorana, oppure ripieno di un impasto al cacao, anche di torrone gelato, ornato di un simbolico stendardo e di variopinte figurine. Ed ancora, l’agnello ripieno di cedro candito, la crosta di pasta frolla mandorlata e cotto al forno.

Infine, i “cuscini” (che ormai raramente appaiono nelle pasticcerie; ci piace ricordare quelli davvero eccellenti della pasticceria Marotta): uno strato in superficie di pasta reale, un ripieno di pan di spagna, zucchero fondente, burro, cioccolato e altro; oppure un ripieno di torrone gelato. Sopra il cuscino, un agnellino di pasta martorana, disteso e sgozzato: allusione palese al sacrifico di Cristo, l’Agnus Dei morto in croce.

*Antonio Sarica, giornalista

Antonio Sarica