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“Quitfluencer”: un italiano su tre colpito dal fenomeno delle grandi dimissioni

Il neologismo unisce il verbo “to quit”, inteso come licenziarsi e “influencer”, ossia colui che con le proprie azioni influenza in maniera massiva il comportamento di più individui

La combinazione di un periodo di recessione e crisi economica causato dalla pandemia unito all’utilizzo esponenziale dei social ha generato il cosiddetto fenomeno del quitfluencer. Questo neologismo unisce il verbo “to quit”, inteso come licenziarsi e “influencer”, ossia colui che con le proprie azioni influenza in maniera massiva il comportamento di più individui. L’analisi della multinazionale di gestione e selezione delle risorse umane infatti rivela che il 27% dei lavoratori in tutto il mondo cercherà di cambiare posizione nei prossimi 12 mesi e, inoltre, 7 persone su 10 ammettono che vedere i propri colleghi dare le dimissioni genera un effetto cascata che produce un fenomeno di dimissioni di massa. Il motivo della nascita di questo fenomeno è da mettere in stretta correlazione con l’avvento nel 2020 della pandemia da Covid-19 che ha portato a una rivalutazione delle condizioni psicologiche e fisiche del luogo di lavoro. Il cosiddetto motto “vivere per lavorare o lavorare per vivere” è diventato un leitmotiv che ha fatto sempre di più propendere il lavoratore medio per la seconda opzione, indice del fatto che lo stipendio viene ora valutato in correlazione con altri fattori tra cui la flessibilità dell’orario di lavoro e l’equilibrio con la vita privata. In aggiunta ci sono anche altri fattori scatenanti da non sottovalutare tra cui la crisi energetica causata dalla guerra ucraina e l’aumento dei prezzi dettato dall’inflazione. Questo scenario ha portato così le aziende ha dover ripensare necessariamente il rapporto qualitativo con i propri dipendenti. Il datore di lavoro è diventato così nell’immaginario collettivo una persona preposta a fidelizzare il dipendente attraverso un rapporto costruttivo di fiducia, teso a garantire sempre nuovi stimoli e corsi di formazione, soprattutto ai lavoratori più giovani. La teoria tuttavia non corrisponde alla pratica e, nonostante numerose aziende stiano cercando di attuare strategie di inclusione e rinnovamento, la realtà dei fatti è ancora molto lontana. Dalla primavera del 2020, data di inizio della pandemia, soltanto in Italia il numero dei lavoratori sotto i 40 anni che hanno deciso di licenziarsi è aumentato del 26%. Un dato spaventoso che suona come un grido d’aiuto da parte del mondo del lavoro, anche perché se è vero che non si vive per lavorare, è vero anche che l’articolo 4 della nostra Costituzione cita “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.” Se le condizioni di lavoro vengono a mancare allora questa marea di improvvisi licenziamenti è forse il sintomo di una vera e propria rivoluzione nel mondo del lavoro, un capovolgimento necessario verso un luogo di lavoro dove il benessere e produttività sono strettamente correlati. 

*Arianna Di Biase, giornalista

Arianna Di Biase