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No Country for Creative Men

Intervista all’artista Jerusa Simone che ha sognato di vivere e lavorare in Italia e poi si è svegliata

Ogni mattina in Italia, al sorgere del sole, un professionista dell’arte contemporanea si sveglia pieno di sogni e sa che dovrà correre più veloce della realtà o dovrà espatriare. La storiella dovrebbe continuare, ma tanto finisce che espatria. Spoiler. Le difficoltà che ogni giorno affrontano i lavoratori del settore culturale sono ben note e non mi ci soffermerei particolarmente. D’altronde noi italiani siamo cresciuti con detti come “impara l’arte e mettila da parte” e “con la cultura non si mangia”. Quindi passato quel momento naïf e inebriante degli anni dell’università, dove tutto sembra possibile, iniziamo a risvegliarci alla realtà: ossia che il sogno di diventare liberi professionisti si scontra con la verità che siamo “poco professionisti, molto liberi” (cit. Alberto Biggiogero durante il processo nel noto caso Uva). La maggior parte di noi cambia lavoro, altri decidono di andar via mentre gli stoici restano a combattere contro un sistema di mulini a vento. Ogni tanto qualcuno ce la fa, alimentando le speranze delle matricole alle facoltà artistiche. E il ciclo ricomincia. Non racconto nulla di nuovo. Mentre poco si narra di quegli animali mitologici (artisti contemporanei stranieri) che vengono a studiare e lavorare in Italia per vivere il sogno del Paese dell’Arte e della Cultura. E allora decido di intervistare Jerusa Simone, giovane artista portoghese, che nel 2018 inizia questa avventura a Roma, città d’arte d’eccellenza nell’immaginario internazionale.

Ve la presento: Jerusa Simone nasce in Portogallo nel 1993 e si forma presso la Escola Artistica do Porto, specializzandosi in Fine Art and Intermedia. Durante questo periodo, nel 2018, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma, città nella quale muove i suoi primi passi come artista indipendente.

Jerusa, come mai hai deciso di venire in Italia? Fin da quando ho memoria, ho interesse per l’arte e la sua storia. Ovviamente questo mi ha portata ad amare il patrimonio italiano e in particolare la città di Roma. L’amore per la cultura italiana mi ha spinta a trasferirmi nella Capitale nel 2018 per studiare all’Accademia di Belle Arti e nella mia testa era chiaro: quello era il luogo in cui volevo vivere e lavorare. Durante gli anni dei miei studi ho visto che il mio lavoro veniva maggiormente apprezzato in Italia rispetto alla mia terra natale, il Portogallo, ragion per cui la determinazione a portare avanti questo sogno si è rafforzata. A quel tempo ero sicura di aver finalmente trovato il mio posto nel mondo.

Com’è andata? All’inizio, nell’estate del 2019, mi sentivo davvero felice della mia scelta. Stavo vivendo il mio sogno adolescenziale! Facevo uno stage in un collettivo di artisti (col supporto economico del programma di stage europeo Erasmus+), quindi non pensavo troppo a come sarebbe stato il “dopo”. In seguito si è rivelato un lavoro impostato e non retribuito che, pur non discostandosi dalle modalità lavorative dell’artista in tutto il mondo, in Italia pare sia una regola in ogni professione relativa a questo campo. Oltretutto mi resi conto che il mondo dell’arte contemporanea romana è quasi inesistente. Pare che la città e i suoi abitanti siano così ipnotizzati dalla bellezza del suo passato da non lasciare spazio per fare entrare aria fresca di novità. I progetti che cercano di liberarsi da questo ambiente claustrofobico classicista lottano per ottenere apprezzamento sociale finendo poi per isolarsi all’interno della loro nicchia. Ho potuto constatarlo personalmente col mio progetto Muja Collective. Credo che molti artisti contemporanei come me (e molti altri professionisti del settore) non sopportino il peso schiacciante dell’antica gloria, unica forma d’arte accettata, dunque nonostante l’amore per l’Italia e per Roma, per la loro vitalità, non abbiamo altra possibilità se non quella di andarcene.

Cosa ti ha spinta poi a fare il passo decisivo per lasciare Roma e recarti in Svizzera? Pur essendo felice in principio, la situazione è diventata insopportabile con l’inizio della pandemia da Covid-19. Benché mi ci sia voluto del tempo per ammetterlo, avevo esplorato tutte le possibilità e dato fondo alle mie risorse: non c’erano più le condizioni per continuare a vivere in Italia. Il passo più importante è stato quello di smettere una volta per tutte di idealizzare la figura dell’artista “povero e inguaiato” nella Città Eterna e cercare invece un posto dove poter ripartire seriamente con la mia professione. È stato allora che Zurigo è diventata una valida alternativa.

Cosa trovi a Zurigo che Roma non può darti come artista? Apertura. Penso che una delle differenze più evidenti tra queste due realtà sia il fatto che le persone a Zurigo sono generalmente più aperte a impegnarsi nell’arte contemporanea su diversi fronti. C’è una scena vivace che investe tanto i musei più prestigiosi quanto i piccoli collettivi e anche il pubblico è più vario e curioso di comprendere il lavoro dell’artista, senza paura di porre domande.

Analizzando in breve il patrimonio delle due città il perché ciò accada diventa quasi ovvio: Roma è la culla del Classicismo mentre Zurigo del Dadaismo.

Alla fine sono consapevole che non esista un luogo perfetto per essere un creativo, un artista, ma non mi pento della mia decisione di lasciare l’Italia.

Jerusa, ad oggi, lavora a tempo pieno come artista in Svizzera ed espone le sue opere in tutta Europa. Sogna ancora di veder realizzata una mostra della sua arte a Roma ma, come spesso accade a chi ormai è approdato ad altri lidi, con la serenità che a disallestimento avvenuto c’è un luogo più accogliente a cui tornare.

*Francesca Anedda, storico dell’arte

Francesca Anedda