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Ricordo di Umberto Eco

Novant’anni fa nasceva l’autore de Il nome della rosa. Il grande filosofo e scrittore ha lasciato una traccia indelebile nella cultura italiana e mondiale

La notte del 19 febbraio del 2016 Umberto Eco (nato ad Alessandria  il 5 gennaio del 1932) ci ha lasciati, a 84 anni, per colpa di un tumore al pancreas, contro il quale combatteva da un po’ di tempo. Quando la mattina seguente ho appreso la terribile, dolorosa notizia dai TG, confesso che sono rimasto allibito, non riuscivo a credere che un uomo come Eco ci avesse potuto giocare il brutto scherzo di lasciarci un po’ più soli su questo mondo. Perché la morte di Eco è una di quelle morti che, per dirla con Mao Tse-tung, pesano come montagne.

Senza tracciare qui una biografia del grande scomparso, quello che bisogna sottolineare è la perdita gravissima per la cultura italiana e mondiale. Sì, perché Eco è stato uno dei pochi intellettuali, uomini di cultura che riescono ad ottenere non solo un successo universale ma soprattutto la stima e il rispetto universali. Il nostro Eco ce lo invidiavano tutti, perchè apparteneva (e appartiene) al patrimonio culturale dell’umanità. Egli può certamente essere definito l’ultimo erede della grande cultura umanistico-rinascimentale e anche di quella illuministica. La sua cultura era immensa, tanto da poterlo definire uomo-librouomo-enciclopedia. Ricordo che sul Venerdì di Repubblica di un po’ di anni fa il critico letterario Angelo Guglielmi (che, insieme ad Eco e altri, ha fondato il Gruppo 63, movimento di neoavanguardia) scrisse che: Eco sa tutto. Eco conosce tutto. Eco, insomma, era una sorta di tuttologo, una mente multidisciplinare, enciclopedica (forse l’ultima dopo quella di Wolfgang Goethe) in grado di dare una risposta su ogni argomento. E’ rimasta famosa la sua riflessione sulla lettura, sul leggere: chi legge è come se vivesse più vite, anzi è come se vivesse cinquemila anni, mentre chi non legge ha vissuto solo per settanta o ottanta anni. Vale la pena riportare quanto Eco scrisse su“L’Espresso” del 2 giugno 1991, in una sua Bustina di Minerva,dal titolo Perché i libri allungano la vita:

…Una volta Valentino Bompiani aveva fatto circolare un motto: “Un uomo che legge ne vale due.” Detto da un editore potrebbe essere inteso solo come uno slogan indovinato, ma io penso significhi che la scrittura (in generale il linguaggio) allunga la vita. Sin dai tempi in cui la specie incominciava a emettere i suoi primi suoni significativi, le famiglie e le tribù hanno avuto bisogno dei vecchi. Forse prima non servivano e venivano buttati quando non erano più buoni per la caccia. Ma con il linguaggio i vecchi sono diventati la memoria della specie: si sedevano nella caverna, attorno al fuoco, e raccontavano quello che era accaduto (o si diceva fosse accaduto, ecco la funzione dei miti) prima che i giovani fossero nati. Prima che si iniziasse a coltivare questa memoria sociale, l’uomo nasceva senza esperienza, non faceva in tempo a farsela, e moriva. Dopo, un giovane di vent’anni era come se ne avesse vissuti cinquemila. I fatti accaduti prima di lui, e quello che avevano imparato gli anziani, entravano a far parte della sua memoria.

Oggi i libri sono i nostri vecchi. Non ce ne rendiamo conto, ma la nostra ricchezza rispetto all’analfabeta (o di chi, alfabeta, non legge) è che lui sta vivendo e vivrà solo la sua vita e noi ne abbiamo vissuto moltissime. Ricordiamo, insieme ai nostri giochi d’infanzia, quelli di Proust, abbiamo spasimato per il nostro amore ma anche per quello di Piramo e Tisbe, abbiamo assimilato qualcosa della saggezza di Solone, abbiamo rabbrividito per certe notti di vento a Sant’Elena e ci ripetiamo, insieme alla fiaba che ci ha raccontato la nonna, quella che aveva raccontato Sheherazade.

A qualcuno tutto questo dà l’impressione che, appena nati, noi siamo già insopportabilmente anziani. Ma è più decrepito l’analfabeta (di origine o di ritorno), che patisce di arteriosclerosi sin da bambino, e non ricorda (perché non sa) che cosa sia accaduto alle Idi di Marzo. Naturalmente potremmo ricordare anche menzogne, ma leggere aiuta anche a discriminare. Non conoscendo i torti degli altri l’analfabeta non conosce neppure i propri diritti.

Il libro è un’assicurazione sulla vita, una piccola anticipazione di immortalità. All’indietro (ahimè) anziché in avanti. Ma non si può avere tutto.

Insomma, secondo Eco: Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro.

Certo: non si può avere tutto, ma anche se la cultura non ci allunga realmente la vita ci dà almeno la sensazione di una vita lunghissima e ben vissuta. Poi, per uomini come Eco, che non solo hanno letto ma anche scritto tanto (ben 45 libri!) la cultura garantisce l’immortalità e l’eternità, almeno finchè il mondo ci sarà. E non è certo il mancato Nobel (che Eco meritava) che potrà mettere in dubbio tale immortalità. Perché Eco è ugualmente un gigante, anzi l’ultimo dei geni che la nostra difficile e complessa  epoca sia stata in grado di generare. I suoi libri, primo fra tutti Il nome della rosa, sono stati venduti e letti in milioni di copie. Solo Il nome ha venduto oltre 30 milioni di copie! Insomma, uno scrittore da best-seller che ha fatto conoscere la cultura italiana in tutto il mondo. E che cultura! Cultura alta e, però, allo stesso tempo, capace di essere compresa anche da un pubblico di massa. Perché Eco è stato tutto questo: cultura di altissimo livello e cultura in grado di essere compresa dalle masse, capace di comunicare il sapere e divulgarlo alle masse, al pubblico delle masse di fruitori dell’epoca postmoderna che si vorrebbe o apocalittici o integrati, ma che lui dice di non volere né in un modo né in un altro: li avrebbe voluti semplicemente avvertiti, intelligenti, illuminati, possibilmente ben armati culturalmente, almeno quel tanto che basta per non cadere nelle trappole e nelle insidie di internet o nelle possibili carenze o errori di Wikipedia. Per un uomo come lui che, tra Milano e Bologna, possedeva oltre 50 mila libri e, quindi, una immensa biblioteca in cui amava naufragare, è chiaro che Wikipedia era vista con un po’ di sospetto. Ecco cosa scrisse un po’ di anni fà:…Wikipedia ha anche un’altra proprietà: chiunque può correggere una voce che ritiene sbagliata. Ho fatto la prova per la voce che mi riguarda: conteneva un dato biografico impreciso, l’ho corretto e da allora la voce non contiene più quell’errore. […] La cosa non mi tranquillizza per nulla. Chiunque potrebbe domani intervenire ancora su questa voce e attribuirmi  (per gusto della beffa, per cattiveria, per stupidità) il contrario di quello che ho detto o fatto.  E ancora:…Quanto ci si deve fidare di Wikipedia? Dico subito che io mi fido perché la uso con la tecnica dello studioso di professione [… ] Ma io ho fatto l’esempio di uno studioso che ha imparato un poco come si lavora confrontando le fonti tra loro. E gli altri? Quelli che si fidano? I ragazzini che ricorrono a Wikipedia per i compiti scolastici? [… ] da gran tempo io avevo consigliato, anche a gruppi di giovani, di costituire un centro di monitoraggio di Internet, con un comitato formato da esperti sicuri, materia per materia, in modo che i vari siti fossero recensiti e giudicati quanto ad attendibilità e completezza.

Grande studioso dei mass media, Eco, che non ha mai disdegnato di analizzare i piani bassi della cultura nelle complesse società di massa, negli ultimi tempi, aveva detto la sua (suscitando l’ira di tanti internauti…) anche sull’imbecillità così diffusa sui social network: I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli. E di imbecilli, come diceva un altro grande, Eugenio Montale, ce ne sono tanti, sono quelli che non mancano mai… e possono combinare guai… Insomma, Eco si è sempre occupato dei media e dei fenomeni comunicativi della società di massa (perfino di un fenomeno come Mike Bongiorno, che fece tanto discutere) ma mettendo sempre in guardia il lettore, invitandolo, cioè, a leggere la realtà e i fatti con intelligenza e occhio critico, guardando in profondità senza mai accontentarsi della superficie. Un uomo da 50 mila libri non poteva accontentarsi della superficie. E, in questo diffidare con intelligenza del fenomeno internet e dell’enciclopedia libera Wikipedia, il Maestro invitava a fidarsi soprattutto della memoria, ad usarla e ad esercitarla perché senza memoria non siamo nulla, al massimo uno dei tanti animali che abitano la terra. Eco sapeva bene che la memoria è tutto, conosceva il pensiero di Dante sulla memoria e lo condivideva: Chè non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, cioè non si ha sapere, conoscenza se non si trattiene a mente ciò che si inteso e appreso, e insomma, non c’è sapere senza memoria: solo la memoria può salvare il sapere, la conoscenza, e soltanto in tal modo il mondo potrà ancora essere dominato razionalmente dall’uomo ed essere suo. Diceva, infatti, se non erro, il filosofo Nietzsche, che  il futuro e, dunque, il mondo di domani apparterrà a chi avrà più memoria.

Proprio con la forza della memoria e le tante migliaia e migliaia di libri letti, Eco è stato la metafora vivente dell’unità del sapere, della sintesi di tutto il sapere racchiuso in un uomo, in un microcosmo che reca dentro di sé il macrocosmo, capace di custodirne tutto lo scibile e, pertanto, la sua invidiabile biblioteca milanese appare come metafora di quella biblioteca (un po’ alla Borges…) che era una bibliotecauniversobabelelabirinto dentro alla quale, però, solo l’uomo di vastissima cultura e di sterminata e infallibile memoria è capace di districarsi agevolmente ed essere in grado di trovare l’uscita ogniqualvolta vi entra. Sull’idea di letteratura che Eco aveva, mi piace ricordare, fra le tante, questa riflessione: Le opere letterarie ci invitano alla libertà dell’interpretazione, perché ci propongono un discorso dai molti piani di lettura e ci pongono di fronte alle ambiguità e del linguaggio e della vita” (da Su alcune funzioni della letteratura, in Sulla letteratura). Infatti, secondo lui, non tocca più di tanto ad un autore parlare del suo libro, spiegarne il significato, ecc. ma sono gli altri che ne devono parlare e che lo spiegheranno e interpreteranno variamente, secondo la propria visione e le proprie idee, secondo la propria cultura.

Insomma, Eco è stato e resta un grande e insostituibile  Maestro, così lucido e limpido, limpida lingua e limpida ragione (direbbe Pasolini), di quelli che non dovrebbero morire mai e, infatti, ha detto bene Roberto Benigni al funerale: Faceva bene al mondo, era una cosa bella… Di persone come lui ce n’è più bisogno sulla terra che in cielo. .. Quindi quando si perde una persona così è un grande dolore. E Moni Ovadia ha detto che: Dio sopporta i credenti ma predilige gli atei. Sì, perché Eco non era credente e, infatti, si è fatto cremare. Certamente, con un sorriso sulle labbra, avrebbe detto, come Luis Bunuel, che: grazie a Dio, sono ateo… Non credente, scettico, razionale, illuminista ma pur sempre aperto alla discussione e alla riflessione anche su Dio, la fede e la religione che sono state così importanti ed egemonizzanti in quel Medioevo che lui tanto ha amato e riscoperto come periodo storico non tutto in negativo ma, anzi, così innovativo e disposto ai cambiamenti.

Sull’immenso Eco – che Dante, pure così enciclopedico e totale, definirebbe, oggi, il maestro di color che sanno – ci sarebbe tanto da dire e da scrivere, tanto la sua opera è vasta e tanto è il peso che ha avuto nella vita culturale e sociale del nostro paese nella seconda metà del Novecento fino ai nostri giorni e tanta ancora quello che continuerà ad avere nei tempi che verranno. Perché il Maestro dalla mostruosa cultura e dalla mostruosa memoria è ormai un classico. E che cos’è un classico? Un classico è un autore che ha sempre qualcosa da dirci e da darci anche fra diecimila anni. Eco era un postmoderno antiaccademico, antiretorico e anticonformista, capace di ironia e di autoironia, capace di fare cultura alta rendendola accessibile ad un pubblico di massa, capace di rendere semplici anche le cose più difficili come, per esempio, la filosofia. Egli ci ha insegnato tante cose, tra queste, per esempio, che la cultura classica, la cultura dei millenni che ci hanno preceduto non può e non deve essere ignorata ma, anzi, deve farci da guida nell’affrontare la complessità del mondo in cui viviamo. Ne Il nome della rosa ci ha insegnato quanto un libro e la sua lettura possano essere rivoluzionari e, anzi, pericolosi, tanto da impedirne la fruizione pena la morte, proprio come accadeva nella medievale abbazia dei misteri, nella cui grande biblioteca era custodito il secondo libro della Poetica di Aristotele, creduto andato perso per sempre. Ebbene, questo secondo libro non poteva essere letto perché parlava del riso e il riso, per la Chiesa dell’Inquisizione (fondata intorno al 1215), era diabolico e conduceva alla perversione… 

Insomma, Eco ci ha aiutato a saper pensare e a saper ben riflettere, dicendoci che solo con la cultura e la memoria possiamo riuscire a  non farci travolgere e, quindi,  a dominare il caos, la babele, il mostruoso labirinto che il mondo è diventato e poter riuscire, anche, ad allontanare i mostri che facilmente vengono alla luce con il sonno della ragione, come già ci aveva avvertito il grande Goya. Eco ci ha insegnato a diffidare del complottismo a tutti i costi e a vigilare su quel fascismo eterno che non muore mai e che potrebbe ritornare sotto mentite e allettanti spoglie.

E, dunque, a te che oggi ci manchi tanto, diciamo: grazie caro Maestro Eco, grazie per quello che sei stato e che hai fatto non solo per la cultura italiana ma per quella universale.

*Salvatore La Moglie, scrittore

Salvatore La Moglie