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Pensiero e linguaggio nella parola poetica

Sulla parola, nelle Ricerche filosofiche (1953), al Pensiero 191 Ludwig Wittgenstein scrive: 

“È come se potessimo afferrare d’un colpo l’intero impiego della parola”. Come che cosa? Non si può – in un certo senso – afferrarlo in un colpo solo? E in quale senso non puoi farlo? È proprio come se potessimo “coglierlo in un solo colpo”, in un senso ancor più diretto. Ma non hai alcun modello per questo caso? No. Semplicemente ci si offre questo modo di espressione. Come il risultato di immagini che si incrociano. L’interrogativo di uno dei geni del XX secolo, proiettato in misura specifica nel contesto dell’aura poetica, coinvolge lettori e autori, illuminando uno spazio allargato, tipico della domanda: è nato prima il pensiero o il linguaggio? Il quesito rappresenta uno dei temi cruciali discussi nella cultura internazionale. Secondo l’approccio 

comportamentista, il pensiero è il linguaggio, ossia un comportamento interiorizzato, costituito da nessi verbali. La lingua, nel proprio meccanismo, viene recepita come 

attività motoria appresa in virtù di un condizionamento ostensivo operante. Nella primissima infanzia, si accolgono incentivi dinamici potenziati da chi abbiamo intorno, rimuovendo, tappa dopo tappa, gli enunciati non accettati dal mondo adulto. 

Lo statunitense Noam Chomsky, però, negli anni ‘60 del Novecento, iniziò ad avversare il modello comportamentista: a suo parere, i “piccoli” non incrementano il repertorio lessicale solo grazie al contributo differenziale dei “grandi”. Infatti, in frequenti occasioni, i bambini sono assolutamente in grado di produrre frasi che nessuno ha loro insegnato e decifrarne altre mai udite in precedenza. 

Allora Chomsky, abbracciando il paradigma innatista, sostiene l’esistenza di una sorta di “dispositivo mentale” per la ricezione del codice linguistico, unico per l’uomo tra tutte le specie: nascendo, possediamo dunque una struttura biologica del sistema nervoso da cui dipende la comprensione degli elementi comuni agli idiomi (la cosiddetta grammatica universale) e la possibilità di acquisire canoni ricavati dall’ambiente culturale nativo. In contrapposizione a tale metodologia si pongono i teorici dell’apprendimento sociale, tra i quali citiamo lo psicologo newyorkese Jerome Bruner: fondamentale diviene l’importanza distintiva garantita dall’hic et nunc socio-economico nell’apprendere il linguaggio. L’intelaiatura logico-intuitiva di un’analoga teoretica è legata a stretto filo alla linguistica generativo-trasformazionale chomskyana, dove distinguiamo una struttura profonda (che non viene pronunciata, ma esiste nella mente di chi parla o ascolta), condivisa dalle varie lingue, e una struttura superficiale (che viene pronunciata e udita). 

Ma in sostanza, secondo Noam Chomsky, come riusciamo a parlare? 

In principio, dobbiamo costruire una rappresentazione ideativa del concetto da esprimere, utilizzando particolari norme della grammatica (ovvero, le regole generative) con l’obiettivo di assemblare una frase in forma di struttura profonda. È poi necessario applicare ulteriori regole grammaticali (chiamate trasformazionali) per far transitare il bagaglio informativo dalla struttura profonda verso uno dei numerosi spazi di quella superficiale. 

Di conseguenza, per decodificare un messaggio elaborato dagli altri, si esegue il procedimento inverso. 

Insieme a tutto ciò, ecco la nostra langue con i suoi atti di parole – utilizzando il lessico di Ferdinand de Saussure – nel cui macrocosmo articolato scelgo l’insegnamento di Galvano Della Volpe. 

L’accademico evidenzia, nel mosaico semiotico totale, uno specifico comune, scientifico, poetico, e subito mette in forse la falsa equazione poesia = ineffabilità, ancora oggi sostenuta da qualcuno. Così, affrontiamo da un lato il codice quotidiano, carico di testi, messaggi e suggestioni comunque di facile accesso, anche se – attenzione – sempre in base all’esame dell’input dal quale partono. Il vocabolo “paura”, ad esempio, nel bambino dispone di un significato occasionale; proposto dall’adulto rivela una sfumatura esistenziale; nel soggetto in pericolo, infine, mostra netti riscontri fisici. 

Nel campo uni-testuale della scienza e della filosofia, l’esegesi sarebbe più lineare in quanto, almeno nel momento storico vissuto, emerge forte nella sua univocità, matrice originaria. All’epoca di Einstein, la parola “relatività” restava indiscussa, volendo riferire soltanto “una” cosa. Ovviamente tale tipologia, nell’asse di pertinenza autoritario, avanza nel tempo: nel procedere delle ricerche filosofiche e sperimentali, alcuni termini, pur non divenendo mai oscuri o polisensi, possono essere, invece, rimpiazzati da nuove nomenclature, permanendo tuttavia provvisti di significato assoluto. 

L’unica classe semiotica capace di rimanere se stessa, bilanciata solo dall’esclusiva contestualità organica – quindi con sintomi (erronei) incombenti, di contenuto precario e incomprensibile – è appunto l’ambito dei segni-segnali poetici. Di nuovo Della Volpe indica il tragitto da percorrere: 

La ricerca dell’universale, della verità, che è propria del discorso poetico, si realizza per mezzo di quei “valori” semantici cosiddetti “stilistici”, e cioè “contestuali-organici”, che più le sono adatti per la sua autonomia.

E – aggiungiamo – anche per la libertà, dove riflessione e astrazione letteraria agiscono a tutto campo. Ma da autonomi, simili valori divengono altrettanto caratteristici, peculiari, in misura tale che tramite una precisa analisi simbolica e stilistica si possa, in via diretta, entrare nel loro espressivo reale senza dover dipendere in scala gerarchica dagli altri due linguaggi: “libero” comporre, dunque, nell’onda lunga di un “libero” interpretare. 

Come ho già osservato a commento dei versi Parole nell’emozione di Maurizio Minniti nel libro Passi nel tempo: 

Una sommaria utopia? Può darsi, eppure, in linea di principio, supportata dalle molteplici esperienze di poesia in atto, con quella sorta di “verità letteraria”, “di natura”, bella o intrigante e, negli esempi autentici, mai astrusa e deserta nella coscienza. 

La coscienza, appunto: la vostra di scrittori, la nostra di lettori. 

In conclusione, nella filosofia dell’arte – intesa sulla scia del pensiero di Immanuel Kant, di Luigi Scaravelli, di Theodor Adorno, di Walter Benjamin – ogni legame di pesante, aprioristica sottomissione al naturalismo appare spezzato, in modo da permettere all’immaginifico, alle idee in espansione, di generarsi con una forza cieca in sé, sebbene l’immaginazione stessa sia romanticamente produttrice dell’organo della vista, quindi del catalogare, enumerare le cose e gli eventi: nella forma della misteriosa, nonché fervida, autocoscienza.

• Bibliografia di riferimento

Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1967 

Noam Chomsky, Le strutture della sintassi, Laterza, Roma-Bari 1974

Galvano della Volpe, Critica del gusto, Feltrinelli, Milano 1960

*Cinzia Baldazzi, critico letterario, teatrale e musicale.

Cinzia Baldazzi