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“D’un alto colle”, il Leopardi napoletano di Cosimo Rossi

L’opera e la figura leopardiana continuano ad essere oggetto di ricerche e proposte di genere diverso. Tanti contributi editoriali, critica letteraria e operazioni in ambiti linguistici variegati, dallo spettacolo-recital a cura di Corrado Augias al film di Mario Martone “Il giovane favoloso” e, tra i contributi dedicati al periodo napoletano, il saggio di Carlo Di Lieto “Leopardi e il mal di Napoli”, il libro del giornalista Carmine Cimmino “Leopardi a Napoli. Tra sorbettieri, pasticcieri e seguaci della filosofia dei maccheroni”. Cosimo Rossi, nel suo romanzo di esordio “D’un alto colle”, edito da MontaG, immagina un episodio della vita di Giacomo Leopardi durante il suo soggiorno a Napoli nell’autunno del 1836.  Il poeta riceve in omaggio del suo editore napoletano un libricino di poesie composte da una poetessa vissuta trecento anni prima. La lettura fa nascere nel conte Giacomo un’affinità elettiva con la poetessa, che scoprirà essere stata barbaramente uccisa a causa di una presunta relazione proibita con un nobile suo conterraneo, anch’egli poeta. Il racconto si colora di giallo e segue i ritmi di una piccola indagine letteraria. Alla soluzione del mistero partecipano, accanto ad enigmatici personaggi, figure note come Basilio Puoti e un giovane Francesco de Sanctis. I segreti sono tanti, a partire dal nome della poetessa e del suo amante, gli indizi si accumulano e i colpi di scena si susseguono: libri scomparsi, pagine strappate, messaggi sibillini. Un’avventura intellettuale e umana che coinvolgerà profondamente Leopardi, interrotta purtroppo dalla sua morte avvenuta a causa dell’epidemia di peste che colpì la città partenopea. Il poeta giungerà alla conclusione della ricerca, ma dovrà lasciare l’epilogo all’amico Antonio Ranieri che, a sua volta, dovrà trasmetterlo ad altri fino a giungere, quasi un secolo dopo, a Benedetto Croce che recupererà la storia e l’opera degli sfortunati innamorati. L’autore ambienta il racconto in uno dei momenti più tranquilli del soggiorno napoletano, senza dimenticare le contraddizioni che lo caratterizzarono.  Leopardi arrivò a Napoli il 3 ottobre del 1833, a trentacinque anni, insieme all’amico Antonio Ranieri, che aveva conosciuto all’Accademia della Crusca. Nella città partenopea cambiò spesso casa, soggiornando, all’inizio nei Quartieri Spagnoli, prima a via Speranzella, poi a palazzo Berio e, infine, a via Nuova Santa Maria Ogni Bene, una delle vie dei Quartieri poste più in alto, al termine di una faticosa salita, dove la sua salute cagionevole finalmente cominciò a migliorare. Leopardi diceva di non amare i Napoletani, ma riconosceva la bellezza della città e Cosimo Rossi ci descrivere le sue passeggiate, le soste, i pensieri contrastanti. Fu Pietro Citati in un suo libro su Leopardi del 2010 a descrivere per primo “il vagabondaggio” quotidiano per il centro storico di Napoli, “da una bottega antiquaria colma di vecchi libri al caffè delle Due Sicilie, in via Toledo, dove assaporava una granita o un sorbetto; dalla pasticceria di Pintauro, in via Santa Brigida, con il suo spettacolo di frolle e di sfogliatelle, al caffè di Vito Pinto, al largo della Carità, con i tarallini zuccherati che avevano procurato a Vito Pinto il titolo di barone”. Non si sottrae Cosimo Rossi al racconto delle sue fermate al banco del lotto dove, per via della sua gobba, “circondato da una venerazione superstiziosa, dava i numeri ai giocatori”. Furono, piuttosto, alcuni intellettuali “colti” a stuzzicarlo e a ferirlo nell’orgoglio, non il popolo dei vicoli. CosimoRossi non dimentica di suggerire i rapporti amichevoli del conte, i buoni servigi di Paolina, gentile e affettuosa, e quelli di Ranieri che gli faceva quasi da segretario, sempre pronto a consigliarlo e a sodisfare i suoi bisogni. La sera spesso si recavano al Teatro del Fondo, dove Leopardi poté anche assistere al Socrate immaginario di Giovanni Paisiello.  Una prosa scorrevole per un racconto ricco di spunti e curiosità che fonde immaginazione e verità, restituendoci il ritratto di un uomo arguto e sensibile, pronto a cogliere la filosofia quotidiana del luogo in cui abitava, di condividerne le abitudini, capace di identificarsi con la sofferenza di una donna vissuta tre secoli prima, nella quale trova l’eco delle sue pene e la stessa consolazione: la poesia. Un antico femminicidio di cui neppure Leopardi sembra comprendere il senso ma che offre l’opportunità al poeta e al lettore di riflettere su un retaggio culturale di brutale violenza che ci riporta con profonda tristezza alla nostra attualità. Dal passato tornano a noi, attraverso la penna di Cosimo Rossi, autore appassionato, il dolore di una fanciulla poeta e la grandiosa figura di sapienza e di umanità di Giacomo Leopardi, “sempre così inquieto, angosciato ed eroico”.

*Fiorella Franchini, giornalista

Fiorella Franchini