VerbumPress

L’opera e la poetica di Stefano D’Arrigo

A più di un secolo dalla nascita e a più di trent’anni dalla morte VerbumPress vuole ricordare e rendere omaggio al grande autore dell’immenso romanzo-epopea Horcynus Orca, e lo fa con questo profilo dello scrittore Salvatore La Moglie

Si deve confessare con molta umiltà che Stefano D’Arrigo fa parte di quegli autori profondi e complessi che mettono in difficoltà l’intelligenza del lettore. Questo grande scrittore del secondo Novecento è così profondo e abissale da non concedere nulla alla superficie e al superficiale. Per comprendere o, meglio, per cercare di comprendere D’Arrigo bisogna essere disposti a calarsi nelle sue profondità, a scendere e anzi a immergersi, fino a precipitarvi, nei suoi abissi, che sono, soprattutto, abissi culturali, linguistici, esistenziali e psichici.

Stefano Fortunato D’Arrigo è nato il 15 ottobre del 1919 ad Alì Marina, vicino allo Stretto di Messina. La sua vita è stata priva di grandi avvenimenti particolari. È stata –  direbbe Pirandello –  «tutta interiore». Nel ’47 si stabilisce a Roma dove collabora come critico d’arte a giornali come il Tempo, il Giornale d’Italia e a riviste come Vie Nuove. Nel ’48 sposa Jutta Bruto, anche lei laureata in “Lettere” come il nostro autore che aveva conseguito la laurea nel ’42 con una tesi su Holderlin. Nell’agosto del ’56 inizia a scrivere il romanzo La testa del delfino che diventerà, dopo una pazientissima riscrittura, il capolavoro intitolato Horcynus Orca. Con questo romanzo vince, nel ’59, il Premio Cino del Duca.

Nel ’57 esordisce con una raccolta di poesie Codice siciliano pubblicata da Scheiwiller e che l’anno successivo gli fa vincere il Premio Crotone. Nel 1960 il Menabò di Vittorini e Calvino pubblica due capitoli di un romanzo che rappresentano il primo nucleo dell’Horcynus: I giorni della fera. In quello stesso anno, D’Arrigo consegna all’editore Mondadori il dattiloscritto di quello che dopo quindici anni di «studio matto e disperatissimo» (direbbe Leopardi) diventerà l’immenso romanzo-epopea. Il capolavoro di D’Arrigo vede finalmente la luce nel 1975 pubblicato da Mondadori. Nell’85 esce, presso la Rizzoli, il suo secondo romanzo Cima delle nobildonne. Il 2 maggio del ’92 D’Arrigo, ormai minato nel fisico e oppresso dai continui mal di testa, muore a Roma. Nel 2000 la Rizzoli ha pubblicato I fatti della fera che rappresentano la prima stesura del capolavoro che D’Arrigo ha scritto, riscritto, corretto, rivisitato, rielaborato e limato a 360 gradi per circa vent’anni. 

Quando l’Horcynus uscì, il dibattito – fra l’altro già in corso prima che l’opera vedesse la luce – fu ampio e le posizioni varie e differenti. Era scoppiato un vero e proprio caso letterario: il caso D’Arrigo. Vi fu chi esaltò, chi stroncò e chi si mantenne su posizioni mediane. Non lo esaltò Enzo Siciliano che su Il Mondo del 13 marzo del ’75 presentava la sua recensione con questo titolo: Quest’Orca la cucino in fritto misto. Molto deluso si mostrò Pietro Citati che sul Corriere della Sera del 4 marzo parlò di un «bellissimo libro rovinato dall’incontinenza dell’autore», mentre su L’Espresso del 2 marzo Paolo Milano sostenne che «il capolavoro non c’è» …

I consensi e le esaltazioni furono, comunque più numerosi. Lorenzo Mondo, sulla Stampa del 23 febbraio, scrisse che con D’Arrigo «la letteratura assume il valore di un’esperienza assoluta, totalizzante». Sul Giornale nuovo del 22 febbraio, Geno Pampaloni parlò di un capolavoro «grandioso, sofferto, solenne, disperato»; Giuliano Gramigna, sul Giorno del 26 febbraio, esaltò nell’opera il «lungo viaggio fra mito e romanzo»… Consensi, D’Arrigo, ebbe anche dai maggiori critici, scrittori e poeti: Debenedetti, Corti, Contini, Magris, Sereni, Pasolini, Caproni, Raboni, Malerba, Primo Levi, Consolo, Pontiggia e altri ancora. C’è, poi, Walter Pedullà che è stato, fin dalla prima ora, il più convinto esaltatore e difensore di D’Arrigo e della sua grandezza e dell’Horcynus come capolavoro assoluto, uno dei più grandi romanzi del ‘900. Pedullà – che tra il febbraio e l’aprile del ’75 scrisse sull’ Avanti! una serie di articoli in difesa di D’Arrigo – ha avuto il privilegio di essere tra i pochi ad avere contatti con l’inaccessibile scrittore che per vent’anni si è dedicato anima e corpo al suo immane lavoro. Pedullà, che è un darrighiano di ferro, ha curato la riedizione del secondo romanzo dello scrittore siciliano scrivendone anche l’introduzione. Crediamo di non sbagliare se affermiamo che Pedullà è certamente tra i pochissimi, forse l’unico che abbia compreso nella sua totalità il significato profondo dell’Horcynus e la poetica di D’Arrigo. E questo perché Pedullà si è calato negli abissi marini, ovvero psichici di D’Arrigo. Dopo aver letto l’Horcynus e decine di pagine su D’Arrigo e sulle sue opere è nelle parole di Pedullà che più ci ritroviamo e ci riconosciamo. Con la sua acuta analisi ci sentiamo in perfetta sintonia.

Diciamolo una volta per tutte: D’Arrigo è un grande del Novecento, un grande che meriterebbe di essere conosciuto da un pubblico più vasto e non da quello ancora ristretto di oggi. Anche nelle scuole D’Arrigo non è conosciuto e più di un’antologia lo ignora. 

Fa giustamente notare il Pedullà che i motivi fondamentali e fondanti della poetica di D’Arrigo sono rintracciabili già nelle sue poesie, in Codice siciliano cioè, dove troviamo il tema del ritorno, del nostos che è ritorno alle origini, alla terra, al mare e alla madre come nell’Horcynus: «prima tappa del viaggio di regressione verso la creazione linguistica, placenta (…) della poesia e della narrativa di D’Arrigo», (così si legge  nel saggio scritto nella sua Storia generale della letteratura italiana). Il mare è vita e morte come nell’Horcynus e se il viaggio di ‘Ndrja Cambria è anche regressione allo stato di feto – perché l’uomo esce dalla madre e vorrebbe ritornare ad essa e in essa – anche nelle poesie si parla di feto. Per esempio, laddove si legge: «con la fatalità di chi/ emigra e si riposa vinto/ nella posa del feto (…)».

D’Arrigo ebbe poeticamente come autore preferito Thomas Sthearns Eliot, il poeta del correlativo aggettivo, dal quale pure restò molto influenzato Eugenio Montale. Non è forse balzana l’idea che la terra desolata di Eliot abbia potuto esercitare un certo fascino sulla Weltanschauung di D’Arrigo che,  nel suo Horcynus, ci offre la visione di paesaggi terrestri, marini e umani in cui la desolazione e l’aridità sembrano essere alcuni dei marchi che più li segnano rendendoli orrendi e, allo stesso tempo, degni di commiserazione e di umana pietà. E, certamente, D’Arrigo ebbe presenti – quando scriveva l’ Horicinus – i versi stupendi del suo amato poeta: E la fine di tutto il nostro esplorare / sarà arrivare dove siamo partiti / e conoscere il luogo per la prima volta.

Horcynus Orca è un immane romanzo-epopea,  certamente corale, polifonico e polisenso, una sorta di moderna Odissea in cui viene narrato il viaggio di ritorno, verso il paese natale, di ‘Ndrja Cambria, giovane marinaio della ex Regia Marina. Il viaggio, con tutte le vicende e gli episodi narrati, avviene dopo l’8 settembre del 1943 quando, caduto il fascismo e assunto il potere il maresciallo Badoglio, il Paese era allo sfascio e il suo esercito praticamente allo sbando. Il re Vittorio Emanuele III era scappato da Roma e riparato al Sud dove, tra non molto, ci sarebbe stato lo sbarco degli Alleati; al Nord il Paese era difeso soprattutto dai partigiani che resistevano al nazifascismo.

È sull’onda dello sfacelo, del marasma, della catastrofe –  anche morale e spirituale –  generata dalla guerra che il romanzo epico e mitologico di D’Arrigo si avvia e  trova anche il suo epilogo di morte e di apocalisse. Il viaggio di ‘Ndrja dura pochi giorni, appena una settimana, ma D’Arrigo ha avuto bisogno di 1257 pagine per raccontarlo e di quasi 20 anni per compierlo mentalmente. Un viaggio, quello di ‘Ndrja e di D’Arrigo che si svolge tra mitologici, epici, onirici e favolosi personaggi (le femminote, per esempio, con Ciccina Circè che la fa da padrona) e animali terribili e mostruosi come le fere (i delfini, ma non come li vediamo e viviamo noi oggi) e soprattutto come l’Orca, l’Orca orcinusa che dà la morte, l’Orca assassina che mai non muore perché lei stessa è la morte. Eppure, l’immortale e fetida Orca (che tanto ricorda il mostruoso Gerione dantesco che «passa i monti, e rompe i muri e l’armi» e che «tutto il mondo appuzza») alla fine muore (magari per poi rinascere…) uccisa dallo scodamento operato dai delfini e dai bombardamenti inglesi.  Muore, però, anche il nostro novello Ulisse, ‘Ndrja, che non riuscirà a ritornare a Cariddi: una pallottola inglese lo colpirà mortalmente alla fronte per essersi troppo esposto. Così, ‘Ndrja –  che forse voleva morire per poter ritornare, cioè per poter regredire alla condizione di feto –   muore e si inabissa, sprofonda per sempre negli abissi marini, «per sempre nelle tenebre… dentro, più dentro dove il mare è mare». ‘Ndrja ha compiuto il suo viaggio al termine della notte e ritorna non alla patria ma al mare, cioè alla madre, alla madre che è la matrice prima, che è vita e morte allo stesso tempo, alla madre che, dandoci la vita, ci consegna e ci condanna al nostro destino di morte e, quindi, di sconfitta.

Horcynus Orca, ha scritto Alfredo Giuliani (La Repubblica, 5 maggio 1992) è un «poema naturalistico-mitologico» e «’Ndrja è Ulisse ma anche Telemaco, così Ciccina è Circe ma anche Caronte» e «il ritorno a casa di ‘Ndrja è infatti un viaggio verso la morte. La morte grande e quella piccola.(…)»: piccola è quella di ‘Ndrja e grande è quella dell’Orcaferone, dell’Orca assassina che però costituisce fonte di sopravvivenza per i cariddoti. ‘Ndrja, scrive ancora Giuliani è un eroe (sarebbe meglio dire: antieroe) sacrificale, una sorta di capro espiatorio necessario, «tutto onesto e perbenevole come Renzo Tramaglino». Ma, in verità, ‘Ndrja non è che un simbolo del destino umano di morte e di sconfitta, proprio come l’Orca lo è della Morte e del Male assoluto. L’Orca di D’Arrigo è come Moby Dick, ma anche qualcosa di più; è come il Gerione dantesco, ma anche qualcosa di più; è come il Leviatano biblico, ma anche qualcosa di più. D’Arrigo ne parla ossessivamente. Sull’Orcaferone, sull’Orcinusa scrive quasi le stesse parole per più pagine: una vera e propria ossessione. Il lettore è spaventato, fortemente impressionato e incuriosito, anche, dal mito e dal mistero di questo orribile mostro che semina morte dappertutto.

In verità, D’Arrigo non è ossessionato dall’Orca, ma da ciò che l’Orca rappresenta. Perché l’Orca è un’immensa metafora, un’enorme allegoria della morte. E la morte è la vera, grande ossessione di D’Arrigo, compendiabile in tre fondamentali m, nella triade cioè: madre, mare, morte. Con la vita che sta lì in mezzo a significare l’oscuro e misterioso destino dell’uomo che, appena nasce, corre verso la morte: il viver che è un correre alla morte, come scrive Padre Dante nella Commedia.

L’Horcynus di D’Arrigo ha richiamato alla mente il Leviatano e l’Apocalisse biblici, l’Ulisse di Dantee di Joyce, il Moby Dick di Melville, il Vecchio e il mare di Hemingway e potrebbe evocare anche il cuore di tenebra e la linea d’ombra di Conrad. Eppure, leggendo questo immenso romanzo, leggendolo fino all’ultima pagina, un pensiero che corre subito alla mente è  quello espresso da  Hemingway in Morte nel pomeriggio, romanzo-antiromanzo sulle corride e sulla lotta per la sopravvivenza fra toro e torero che, certamente, D’Arrigo non ignorava. Crediamo che alla base della poetica dello scrittore siciliano vi sia quello che c’era in quella di Hemingway: il sentimento profondo della vita e della morte. Chi ha letto Morte nel pomeriggio ricorderà certamente lo straordinario passo nel quale lo scrittore americano scrive così sulle corride: «Pensavo che fossero ingenue e barbare e crudeli, e che non mi sarebbero piaciute, ma che avrei veduto una certa azione precisa che mi avrebbe dato la sensazione della vita e della morte che andavo cercando». Che è ciò che andava cercando anche D’Arrigo e che era alla base dei suoi pensieri. Nel capolavoro hemingwaiano come in quello darrighiano la protagonista è la Morte, è lei che campeggia e trionfa e, alla fine, D’Arrigo – come Hemingway – giunge alla consapevolezza incontrovertibile che «dev’essere molto pericoloso essere un uomo» e che «solamente pochi ce la fanno»; che «è un mestiere difficile, e al fondo c’è la tomba». Così scrive Hemingway e D’Arrigo potrebbe apporre anche la sua firma. Ed è morte violenta quella alla quale assistiamo sia in Morte nel pomeriggio che nell’Horcynus. Lì i tori e i toreri, qui l’Orca orcinusa e il generoso ‘Ndrja che si sporge un po’ troppo con la testa e trova la morte violenta. Quasi un suicidio come a voler dire, hemingwaianamente, che «l’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto», perché «l’uomo non è fatto per la sconfitta» (Il vecchio e il mare).

«Horcynus Orca», scrive Pedullà, «è la maggiore opera che la nostra narrativa abbia dedicato al mare e compete in visionarietà realistica, audacia e ricchezza di immaginazione, vertiginosa invenzione linguistica con le più belle e proverbiali opere marinare di ogni altra letteratura del mondo». Giudizio condivisibile come quello di Giuliani che, nello stesso articolo citato, definisce l’Horcynus come «l’epopea dell’etimologia e della sintassi siciliana», aggiungendo, subito dopo, che «si potrebbe anche dire, al contrario, che la lingua di D’Arrigo è l’italiano più solenne e sontuoso, insicilianito e marezzato di arcaismi…, manierismi paradialettali, francesismi popolareschi…».

D’Arrigo scrive una prosa e un linguaggio tutto suo, combina le parole, crea neologismi e fa diventare, più di una volta, il dialetto siciliano lingua ufficiale e l’italiano lingua ausiliaria di quel dialetto. Chè, D’Arrigo, non dimentica che in Sicilia e anche in Calabria c’era stata la scuola poetica siciliana voluta da Federico II di Svevia e che, qualora la dinastia sveva non fosse crollata, il siculo-calabrese avrebbe potuto assurgere a lingua nazionale, come poi sarebbe stato per il toscano. E qui siamo alla seconda ossessione di D’Arrigo: quella della lingua e del linguaggio da usare per l’Horcynus che, pertanto, è romanzo metalinguistico, di ossessiva sperimentazione sulla lingua. Una lingua, un linguaggio e uno stile sui quali avrebbe lavorato quasi una vita, perché l’Horcynus è tutta la vita di D’Arrigo, è il romanzo, il libro di una vita. E non sbagliamo, dunque, se affermiamo che D’Arrigo è sostanzialmente autore di un solo libro. Un libro al quale ha dedicato tutto se stesso, che ha costituito una sfida intellettuale oltre che un sogno da realizzare. D’Arrigo ne uscì debilitato nel fisico e forse anche nella mente, ma, alla fine, il capolavoro di cui era consapevole venne alla luce.

Ci sarebbe tanto da dire su questo autore, sulla sua opera e sulle sue due ossessioni (la morte e la lingua) che abbiamo rilevato nella sua poetica visionaria, onirica, fantastica e realistica insieme, ovvero di un  particolare realismo. Per quanto riguarda lo stile – scrive ancora Giuliani – «è quello della digressione epica», ma è anche quello del dialogo che più di una volta sembra monologo interiore al limite del flusso di coscienza. In verità, tutto l’Horcynus potrebbe essere letto come un lunghissimo monologo interiore sul tema della vita e della morte simboleggiata sì dall’Orca ma anche dalla guerra che, se ben leggiamo tra le righe, potrebbe assurgere ad allegoria della Morte che gli uomini si danno reciprocamente, seminando distruzione, dolore, lutto, desolazione e crisi morale e spirituale. Se ben riflettiamo, ‘Ndrja non viene ucciso –  come più di un lettore si aspetterebbe –  dalla spaventosa Orca, ma trova la propria violenta fine con una pallottola uscita dal fucile di un soldato inglese. E, dunque, potrebbe darsi che D’Arrigo abbia voluto fare della guerra, che gli uomini si fanno assurdamente da quando son venuti al mondo, il vero simbolo del Male assoluto, tanto assoluto da sopravvivere alla stessa Orca: l’immortale Orca muore, ma la guerra, con le sue devastazioni, resta, più mostro e più mostruosamente del mostro marino. E, dunque, ancora, la guerra come metafora, come simbolo della sconfitta dell’uomo il quale, già condannato sin dalla nascita al destino di morte, non contento, scatena la guerra per darsi la morte, confermando quella sconfitta e quel destino in modo violento.

Cercando una conclusione su un autore, per certi versi decadente, come D’Arrigo, che predispone a più di una riflessione anche di carattere psicoanalitico, si può dire che i suoi temi fondamentali sono la vita, la morte, il dolore, la sconfitta, il sogno, l’amore più autentico e soprattutto il mare, il mare che è vita e morte come una madre nella cui placenta è custodito il principio e il segreto stesso della vita. Dalla madre-mare veniamo e dalle sue acque generatrici, ed è lì che vogliamo ritornare, è lì che, prima o poi, tutti ritorneremo. Pertanto, Cima delle nobildonne non è un romanzo diverso dall’Horcynus, ma, pur nella diversa trama, ne è la ideale e psicanalitica prosecuzione: la placenta e il liquido amniotico della madre come un grande mare che ci dà e ci toglie la vita, condannandoci eternamente alla morte. D’Arrigo sembra essere giunto alla quintessenza del grande mistero della vita e della morte, e  l’ha  trovata tra lo Scilla e il Cariddi, in una Sicilia in cui pare essere racchiusa –  come diceva Goethe –  «la chiave di tutto». In una Sicilia che D’Arrigo fa assurgere a ombelico del mondo, centro da cui guardare il dantesco «gran mar dell’essere», perchè lì è il mondo. La Sicilia, dunque, come metafora? La Sicilia come mare-madre «chiave di tutto», proprio come la madre che racchiude in sé il segreto e il mistero della vita e della morte? Per non morire e per poter vivere sempre come in un porto sicuro, dovremmo poter stare, o comunque poter ritornare, nel grembo della madre dove l’acqua è più acqua, proprio come nell’inconscio di ‘Ndrja –  che D’Arrigo fa uccidere dal soldato inglese –  il mare, in cui si inabissa e in cui ritorna, è più mare. E, allora, ha forse ragione Giorgio Caproni quando scrive che: Se non dovessi tornare,/ sappiate che non sono mai partito./ Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare/ qua, dove non fui mai. O, forse, ha ragione Josè Saramago quando afferma che: La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro… Magari verso la morte.

*Salvatore La Moglie, scrittore

Salvatore La Moglie