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L’opera e la poetica di Tommaso Landolfi, maestro del Novecento dimenticato

Landolfi, vissuto nella temperie culturale del Decadentismo che tanto ha segnato la letteratura europea tra Ottocento e Novecento. Salvatore La Moglie lo ricorda per Verbumpress 

Nessun autore della prima metà del Novecento potrà mai essere compreso fino in fondo se non si ha presente la complessità di ciò che è avvenuto in Europa negli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando si ha, cioè, il massimo dell’esplosione della Modernità nelle società borghesi industriali e capital-imperialiste della civiltà Occidentale. Fare una disamina approfondita sarebbe impossibile nell’economia di questo lavoro. Più schematicamente e superficialmente si può dire che agli inizi degli anni ’80 del XIX secolo la cultura positivista con i suoi valori, ideali e certezze è ormai entrata in crisi e viene messa in discussione in quasi tutti i campi del sapere e dell’attività intellettuale. Gli artisti, i poeti, gli scrittori e i filosofi si avvedono che la scienza, la tecnica, la filosofia, la ragione e, insomma, la razionalità borghesi, tanto esaltate dal Positivismo, non sono capaci di rispondere a tutti i perché e spiegare tutti i misteri della vita e della realtà che ci circonda, mentre sono state solo capaci di distruggere il sogno e la fede. Sogno e fede che, oltre che bisogni dello spirito umano, sono pur sempre delle alternative di fronte alle incertezze e alle paure generate dal disincanto del mondo (Max Weber) e dal disagio della civiltà (Sigmund Freud).

Vi è, dunque, in quegli anni così traumatici e critici, la profonda coscienza di un mondo e di una civiltà borghesi che cessano di essere tradizionali e iniziano ad essere inesorabilmente complessi e complicati da vivere. Vi è, profonda e dolorosa, la presa di coscienza sulla crisi della ragione che diventa, così, crisi della cultura. Perché, in verità, quella che viene chiamata cultura della crisi è, alla fin fine, un riflesso della  crisi della cultura. La cultura riflette su se stessa, sui propri fondamenti, sulle proprie ragioni d’essere. E, così, la geometria s’avvede di non essere più e soltanto euclidea; la fisica e la meccanica mettono in discussione gli eterni assoluti; Freud scopre l’inconscio e ci dice che siamo sfaccettati e non tutti d’un pezzo; Einstein ci svela i segreti della teoria della relatività e Heisenberg quelli del principio di indeterminazione; in filosofia – da diversi versanti – Nietzsche, Croce, Husserl, Bergson e  Heidegger, insieme a tanti altri, contestano e combattono attivamente il credo scientista e razionalista del Positivismo; l’Espressionismo in arte e il Decadentismo in letteratura reagiscono duramente ai canoni del Naturalismo alla Zola in nome dello spirito, del sogno, della fantasia (anche di quella più inquietante), dell’inconscio e, in una parola, dell’Io e della soggettività.

L’Espressionismo e il Decadentismo si avvedono ben presto che la civiltà industriale, capitalistica, moderna ha fatto dell’uomo un corpo senz’anima, un guscio vuoto dominato dalla razionalità di un mondo ormai inquinato e corrotto, senza più grandi ideali per cui vivere e morire e, fatalmente, avviato verso la catastrofe, verso l’apocalisse. Non è un caso che Svevo scriverà, a conclusione della Coscienza di Zeno, che «la vita attuale è inquinata alle radici» e che l’unica salvezza potrebbe consistere in una megadeflagrazione dell’universo che lo riconduca ai primordi per un nuovo probabile (?…) inizio, con una nuova umanità un po’ meno malata e un po’ più sana. Ma Svevo sa che questa è una provocazione letteraria dettata dalla disperazione e dalla assurdità della vita. Come sa, pure, che Freud è un grand’uomo ma la sua psicanalisi non guarisce e non salva. La salvezza, semmai, può venire solo dalla penna: la scrittura è terapeutica e solo attraverso lo scrivere possiamo dire la nostra verità e rappresentare, anche se in modo parziale, il mondo e la realtà.

E qui giungiamo al problema di fondo: la realtà. Problema che è, poi, l’alfa e l’omega della nostra esistenza. Lo scrittore decadente è ben consapevole del fatto che il mondo e la realtà, nella loro totalità, gli sfuggono e che egli non riuscirà mai a coglierli completamente, ma solo in parte e, soprattutto, dal suo particolare punto di vista. Lo scrittore decadente  –  molto di più di quello barocco del ‘600 –  ha capito definitivamente che l’uomo attuale non è più, biblicamente, al centro dell’universo e che il paradiso, che già Milton vedeva perduto, adesso è perduto per sempre. L’uomo ha, dunque, perso anche questa speranza e al suo posto è subentrato il sentimento di una profonda sconfitta e di un’inguaribile malattia esistenziale.

Allo scrittore e all’artista decadenti, la realtà appare complessa, relativa, instabile, multiforme, sfaccettata, frantumata e, quindi, inafferrabile e molteplicemente interpretabile. Il problema, però, non è solo questo. Il problema sta soprattutto nel fatto che ad essere disgregato e sfaccettato (con tutto quel che segue), non è solo la realtà ma anche l’uomo, il suo Io e il personaggio che viene presentato al lettore come espressione di quello che l’uomo è diventato. E, così, figura comune a tutta la letteratura decadente, con propaggini e diramazioni fino ad autori come Calvino e Landolfi (per tanti aspetti così vicini), diventa quella dell’antieroe, dell’inetto alla vita, dell’uomo senza qualità annichilito dall’esplosione della Modernità.

Si tratta di una figura e di un personaggio anticipati già, in gran parte, da Dostoevskij (l’idiota e l’uomo del sottosuolo) e da Gončarov (Oblomov). Ma, se volessimo andare ancora più indietro, c’è Shakespeare con il suo tragico Amleto, che riflette sull’essere e il non essere. E com’è questo personaggio? Quali sono le sue caratteristiche? Egli, come Amleto, non è capace di prendere di petto la realtà come farebbe un Napoleone (così adatto, invece, alla vita!..) e, quindi, non riuscendo a piegarla alla propria volontà finisce per subirla ed esserne dominato. Egli è inadeguato alla vita e incapace di decisioni immediate; eterno irresoluto e malato nella volontà; è incerto, apatico, indifferente e psicologicamente paralizzato; vive la vita da sconfitto e da frustrato; non riesce ad avere un rapporto armonioso con la realtà e con gli altri esseri umani, con i quali regna sovrana l’incomunicabilità e il fraintendimento; non vive, ma si vede vivere. Non resta che una disperata solitudine e una visione pessimistica della vita che, il più delle volte, ha come sfondo il destino catastrofico di quell’«atomo opaco del male» (Pascoli) che è il pianeta su cui viviamo. Da Pirandello a Svevo, da Proust a Joyce, da Mann a Musil, da Kafka a Čechov, da Tozzi a Borgese, da Palazzeschi a Moravia, da Landolfi a Calvino (ma l’elenco potrebbe continuare) ci troviamo sempre di fronte a questa figura, a questo personaggio emblematico di un’epoca e di una civiltà tanto complesse da mutare i connotati interiori, psicologici dell’individuo.

Se durante il Positivismo si era parlato di darwinismo sociale in merito alla dinamica socio-economica che condiziona e determina gli adatti e i meno adatti, per la civiltà post-positivistica e decadente si può parlare di darwinismo psicologico. Zeno Cosini, come tanti suoi affini letterari, non è sconfitto, come ‘Ntoni Malavoglia, dal dato socio-economico ma è sconfitto e annichilito dal dato psicologico, dalla sua stessa coscienza. La sconfitta non è orizzontale ma verticale. Questo stato d’animo decadente di fronte alla realtà del mondo moderno, contro la quale Munch ha lanciato il suo disperato urlo, ha dominato quasi tutto il Novecento e, per più di un verso, esso ci accompagna ancora, anche perché gli avvenimenti storici, politici e sociali sembrano proseguire lungo quella linea tracciata fra fine ‘800 e primi decenni del ‘900 e, anzi, le nostre ansie, le nostre paure e le nostre incertezze (ormai globalizzate) sono, indubbiamente, accresciute e rese più insopportabili. 

È nostra convinzione che da questa pur schematica e incompleta premessa non si possa assolutamente prescindere se si vuole capire un autore così complesso come Tommaso Landolfi, che Gianfranco Contini ha definito un «ottocentista eccentrico in ritardo» e che va visto «tematicamente a metà strada fra l’anziano Palazzeschi e il più giovane Calvino (…)». Come dire: fra i primi e gli ultimi decenni della civiltà del Decadentismo.

Landolfi, «questo grandissimo scrittore» (Geno Pampaloni, Il Giornale, 10-7-1979) è uno di quegli autori che sfuggono a ogni rigida collocazione entro una corrente o scuola letteraria, ma è certamente inseribile, e a pieno titolo fra i massimi scrittori, nel clima culturale e psicologico del Decadentismo italiano ed europeo. Egli è accostabile alla  ormai canonica linea Pirandello-Tozzi-Svevo-Moravia, soprattutto per quanto concerne le due dissoluzioni (della realtà e dell’Io) di cui si è appena parlato, per la presenza, nelle sue opere, del tema della fine della storia,cioè della visione catastrofica sul destino della civiltà dell’uomo, ma anche per l’approdo alla metaletteratura, al metaromanzo e persino all’antiromanzo, cioè alla consapevolezza dell’impossibilità di poter scrivere un romanzo compiuto (come quello ottocentesco) nell’attuale società post-moderna.

Per Landolfi, come per gli autori citati, la realtà è come un paio di scarpe strette e perciò non piace e risulta fastidiosa.  La disarmonia con essa è totale. Si tratta di una realtà in cui non si riconosce e nella quale non si identifica e che, anzi, vive con senso di estraneità e d’inappartenenza. Egli ha, profonda la coscienza della crisi del mondo borghese e vive la crisi della coscienza dentro un mondo entropico, ormai privo di valori e di certezze e con una soggettività ripiegata su se stessa, in quanto si avverte schiacciata e impotente di fronte ad esso. Si avverte, cioè, inetta, insufficiente. Se Svevo parla di inettitudine e Moravia usa, alternativamente, i sostantivi indifferenza, noia e disperazione, Landolfi parla più chiaramente di stato di insufficienza per esprimere, appunto, la condizione di insufficienza alla realtà, di inadeguatezza alla vita, la condizione cioè di chi, pirandellianamente, si vede vivere. Landolfi parla – come Pirandello, Svevo e Montale –  di una vita fatta di pochi avvenimenti e vissuta soprattutto a livello intellettuale e spirituale. Insomma, «poca vita e tanta letteratura», per dirla con Alfredo Giuliani (che scrisse, sulla Repubblica del 10 luglio del 1979, un ricordo dello scrittore morto due giorni prima). Landolfi detesta la realtà e ha in uggia la vita nella sua banalità quotidiana. «Aveva, e coltivava, il disgusto, lo schifo della vita; come qualcosa di molle, untuoso, appiccicaticcio, insensato, inutile e compromissorio», ha scritto Fabrizio Dentice (la Repubblica, 3 febbraio 1999).

Landolfi parla anche di accidia, che è qualcosa di simile e forse di peggio dell’inettitudine e, certo, denota un’apatia e un’indifferenza paralizzanti di fronte a una vita che – direbbe Moravia – non persuade della propria effettiva esistenza e vissuta, pertanto, come assurda e insignificante. Ne La bière du pecheur si può leggere un brano che ci spiega molto bene lo stato d’animo decadente di Landolfi. Si tratta di un passo che rappresenta anche una dichiarazione di poetica, un manifesto di quello che la critica definisce giustamente la poetica dell’insufficienza. Scrive Landolfi: 

«Alcune opere dannunziane, per esempio Il secondo amante di Lucrezia Buti, ci fornirebbero, se non fossero sostenute da un potente ingegno, la pittura più esatta di ciò che si chiama stato di sufficienza [la sottolineatura è nostra]. Solo a rovesciare i termini, io darei una pittura altrettanto esatta del mio proprio stato, che pertanto, con definizione quasi clinica, dovrei chiamare stato di insufficienza [la sottolineatura è nostra]. Tutto si potrà trovare nelle mie passate opere e in me, fuorchè… la vita.

Dove dunque, in quale desolata regione ha corso la mia esistenza – visto che non c’è altre parole da designarla? Un tempo avevo persino dichiarato guerra, alla vita, perché da lei mi sentivo escluso. Ma ora! Ora non ho neppure questo stupido orgoglio. Non ho più forza né ali; e così scrivo questa specie di diario».

Come tutti coloro che si sentono esclusi, forestieri, emarginati dalla vita e che si vedono costretti a vivere una non vita,Landolfi reca dentro di sé – direbbe Pasolini –   una disperata vitalità, una terribile voglia di vivere. Quanto più si è incapaci di aderire alla realtà e alla vita per insufficienza, tanto più si avverte forte e prepotente il bisogno-desiderio di vivere in qualsiasi modo, anche sbagliando, anche abbandonandosi al caso e agli eventi, di solito assurdi e paradossali; anche gettandosi nel gioco, soprattutto nel gioco d’azzardo che – nel caso di Landolfi – finisce per rappresentare l’azzardo della vita e, perciò, una forma di esistenza, un’attività dello spirito. E noi sappiamo che l’aristocratico, lo schivo, l’appartato, il solitario Landolfi ama il gioco, è un patito del “tappeto verde” che, in una serata, può decidere il nostro destino.   Se la realtà è quella che è, cioè assurda e il più delle volte irreale e se, con essa, non vi è identificazione, allora tanto vale affidarsi al caso, all’imprevedibile, all’ignoto, all’arcano, all’inspiegabile, all’indeterminato, al non-pianificato, all’imponderabile… insomma, a una realtà altra, a un altrove che, in qualche modo, ci faccia sentire vivi e magari sufficienti, anche se perdiamo. Il gioco e il caso: entrambi si disputano il nostro destino e potrebbero simboleggiare quell’altrove – che è poi un’alternativa – che Landolfi cerca, rincorre. È, forse, una maniera di «sbirciare, traverso il subbuglio e il disordine, il fondo di sè»? È probabile. Si è detto che in questa sua mania del gioco c’è molto di dostoevskiano. Noi sappiamo che Landolfi si è laureato in letteratura russa e che è stato fine traduttore dei grandi scrittori russi oltre che francesi e tedeschi: Puškin, Lermontov, Gogol, Tolstoj, Dostoevskij, Tjučev, Leskov… Probabilmente c’è qualcosa di dostoevskiano, ma Landolfi non imita perché non ne ha bisogno. Ogni scrittore ha i suoi debiti verso chi lo ha preceduto, ma poi il grande autore crea opere e personaggi in modo originale, secondo il proprio stile, la sua particolare esperienza e la propria visione. Landolfi ha i suoi autori, quelli sui quali si è formato: Leopardi, Manzoni, Pascoli, Pirandello, Svevo, Hoffmann, Poe, Novalis, Kafka, Hofmansthal, Mérimée, Rabelais, Verne, tutti i grandi scrittori russi appena citati ma anche tanti altri.

Si è parlato di una certa vicinanza di Landolfi alla poetica del realismo magico di Massimo Bontempelli. Di somiglianze e di vicinanze fra autori se ne possono trovare tante se si vuole, ma ognuno è a sé, ognuno è un caso particolare pur nelle affinità. Le suggestioni e le ascendenze letterarie attribuite a Landolfi sono più di una, ma il vero classico crea sempre in maniera personale e originale. E Landolfi è un classico a pieno titolo e uno dei pochi scrittori italiani che possano reggere il confronto anche con un Kafka e un Borges.

Landolfi nasce il 9 agosto del 1908 a Pico Farnese (allora in provincia di Caserta, ma che sotto il regime fascista passerà in quella di Frosinone con sommo dispiacere dello scrittore). La madre muore quando lui ha appena due anni. Questo evento resterà una ferita sempre aperta.

Landolfi – che proviene da una nobile famiglia – vive tra Pico e Roma e nel 1919 viene mandato al collegio Cicognini di Prato già frequentato da D’Annunzio; quindi va al liceo Tasso di Roma.  Legge tantissimo e negli anni ’20 anche libri di psicologia, di psicanalisi e di esoterismo. Dopo aver conseguito, nel ’27, la maturità classica si trasferisce a Firenze (che egli chiama la “Città unica”) e segue il corso di laurea in lingua e letteratura russa. La laurea sarà conseguita nel ’32 con il massimo dei voti. Intanto, nel ’29, ha già iniziato l’attività letteraria con il racconto Maria Giuseppa, che esce nel 1930 sulla rivista Vigilie letterarie. In questi anni frequenta gli ambienti dell’ermetismo fiorentino e inizia la collaborazione a riviste come Occidente, Europa Orientale, L’Italia letteraria e Caratteri. Nel ’37 pubblica, a sue spese, il suo primo libro Dialoghi dei massimi sistemi, che raccoglie i suoi primi racconti. Nel ’39 escono Il Mar delle Blatte e altre storie e La pietra lunare, mentre dal ’41 incominciano a essere pubblicate le traduzioni degli autori stranieri. Nel ’42 è la volta del terzo volume di racconti La spada e nel ’43 scrive il suo primo romanzo Le due zittelle,che uscirà nel ’47. Il ’43 è anche l’anno in cui Landolfi paga il suo antifascismo con più di un mese di carcere.

Tra il ’45 e il’ 53 vive soprattutto a Firenze. Nel ’47 pubblica Racconto d’autunno, il suo romanzo più fortunato dal punto di vista commerciale; nel ’50, invece, esce il “fantascientifico” Cancroregina. Dal ’51 inizia la collaborazione al Mondo, la rivista del suo amico Mario Pannunzio.  Nel ’53 esce il primo dei suoi diari, La bière du pecheur, che segna il passaggio dal primo al secondo Landolfi: al Landolfi che sembra più propenso alla confessione, all’autobiografismo e, comunque, più disposto a dirci qualcosa di più su di sé, anche attraverso l’autoanalisi e l’autoironia. Nel ’54 escono Ombre, raccolta di articoli e divagazioni, e le due “favole” Il principe infelice e La raganella d’oro; nel ’57 la raccolta di scritti vari Mezzacoda; nel ’58 il racconto Ottavio di Saint-Vincent; nel ’59 la tragedia in endecasillabi Landolfo VI di Benevento; nel ’60 la silloge di scritti di viaggio Se non la realtà e nel ’62 quella di articoli e racconti In società.  Landolfi giunge al matrimonio in età matura: dal ’49 si trasferisce a San Remo (dove è assiduo frequentatore del casinò); nel ’51 conosce Maria Luisa (detta Marisa), molto più giovane di lui e, nel ’55, la sposa. Nel ’63 esce il secondo diario Rien va, nel quale registra la nascita dei suoi due figli, Idolina (nel ’58) e Landolfo (nel ’61).  Nel 1963 esce pure il testo dello sceneggiato televisivo Scene di vita di Cagliostro; nel ’64 i Tre racconti; nel ’65 il romanzo Un amore del nostro tempo; nel ’66 Racconti impossibili; nel ’67 il terzo diario De mois; nel ’68 gli elzeviri di Un paniere di chiocciole; nel ’69 la commedia Faust ’67; nel ’71 il prosimetro Breve canzoniere e gli articoli letterari Gogol a Roma. Proprio in quest’anno viene colpito da una crisi cardiaca di cui risentirà negli anni successivi. Nel ’72 esce il volume di poesie Viole di morte, che è l’ultimo dei volumi pubblicati dalla casa editrice Vallecchi: da questo momento sarà la Rizzoli a pubblicare le sue opere. Nel ’74 escono i racconti Le labrene; nel ’75 la raccolta di racconti A caso; nel ’77 esce il secondo libro di poesie Il tradimento e nel ’78 escono gli articoli di Del meno.

Dal ’63 fino al ’79, Landolfi collabora al Corriere della Sera. Numerosi sono i premi letterari che ha vinto: il Marzotto, il Viareggio, il Campiello, il Pirandello, il Bagutta, lo Strega e altri ancora. Ormai debilitato dalla malattia, Landolfi muore a Ronciglione (Roma), la domenica pomeriggio dell’8 luglio del 1979, non facendo in tempo a compiere i 71 anni. Le sue spoglie riposano nel cimitero della sua amata Pico. Dopo la morte, le ristampe delle sue opere (più di cinquanta, tra le sue e le traduzioni) si interrompono. È Italo Calvino a rilanciare l’opera landolfiana pubblicando nel 1982 l’antologia Le più belle pagine di Tommaso Landolfi. Dieci anni dopo, sono usciti, dalla Rizzoli, i due bei volumi di Opere, a cura della figlia dello scrittore Idolina (scomparsa nel 2008), la quale, dal ’92 in poi ha curato la pubblicazione dei testi del padre per la casa editrice Adelphi.

Tommaso Landolfi ha, in genere, goduto del giudizio positivo della critica e, negli ultimi vent’anni, vi è stata una vera e propria rivalutazione della sua opera, che è certamente di respiro europeo. Un’opera, quella di Landolfi, che non è sempre facile da decifrare, perché complessa e ricca di simboli e di significati reconditi, misteriosi e inquietanti: un vero e proprio labirinto dal quale sembra che non vi sia possibilità di uscita. Si rischia di rimanervi dentro, come in un gioco, in un rebus letterario che manca di soluzione. E Landolfi – lo abbiamo visto –   non ama solo il gioco d’azzardo ma anche quello letterario, quello fatto con le parole. Con le parole si può fare tutto e Landolfi, grande sperimentatore linguistico e letterario, lo sa benissimo. Si può anche fingere e mentire con esse, fino a deformare la realtà o comunque a crearne una a nostra misura per esprimere la nostra visione del mondo. E qual è la visione, la concezione della vita e della realtà di Landolfi? Landolfi ha una visione, un sentimento tragico della vita. E in questo vi è molto di decadente. La morte, per esempio, è quasi sempre presente e la vita è come l’altra faccia della morte, tanto da fargli scrivere che «l’odiosa vita regna in ogni dove». E della vita Landofi ritrae, in maniera fantastico-surreale, gli aspetti più ambigui, più assurdi, più paradossali, più misteriosi, più irreali e più iperreali, più mostruosi, più crudeli, più sensualmente morbosi, più spaventosi, più kafkiani, più inverosimili, più infernali e più bestiali. E tutto questo lo fa – da quell’aristrocratico della penna qual è –  con una scrittura raffinata, con un linguaggio e uno stile ottocenteschi non sempre comprensibili per un lettore non agguerrito.

Landolfi è un uomo di vasta cultura e per lui il canone della letterarietà è qualcosa di cui non riesce a fare a meno e lo stile elevato finisce quasi sempre per prevalere, sia nei monologhi che nei dialoghi. Di questo suo stile, di questa sua particolare scrittura ecco cosa dice ne La bière du pecheur (opera dal titolo forse volutamente ambiguo: può tradursi con la birra del pescatore o la bara del peccatore…): 

«Sono anche stanco di questa mia scrittura, giacchè stile non si vuol chiamare, falsamente classicheggiante, falsamente nervosa, falsamente sostenuta, falsamente abbandonata, e giù con tutte le altre falsità; possibile che io non sappia arrivare a una onesta umiltà e che le mie frasi mi nascano tronfie dal cervello come Pallade armata dal… ecco che ci risiamo?».

Decisamente lontano dalla poetica del neorealismo, lo «spericolato, acrobatico… sperimentatore» (Pampaloni, 1979) Landolfi gioca a ritrarre la realtà in tutte le sue ambiguità e imprevedibilità, anche con modalità fantascientifiche come in Cancroregina. Tra i grandi del genere fantastico, Landolfi sceglie questo genere perché gli consente una particolare lettura e rappresentazione della realtà e perché gli consente anche di giocare con le parole. E lui il gioco lo ama tanto perché gli permette di sfidare e trasgredire un po’ ogni cosa, la stessa letteratura. E non è forse la letteratura il più esaltante, il più coinvolgente e anche il più inquietante e complesso gioco d’azzardo della vita? La letteratura intreccia, combina, fa incrociare vite diverse; fa giocare con le parole; crea equivoci, bisticci, calembour; fa diventare finzione la realtà e realtà la finzione e non sai se il surreale e il grottesco, il fantastico e l’onirico, il visionario e l’allucinato siano frutto di invenzione e non aspetti della realtà che, come diceva Oscar Wilde, supera sempre la fantasia.

La realtà è un orribile labirinto e Landolfi lo sa molto bene, tanto da preferire –  l’espressione è sua –  il non vivere. Ma Landolfi sa anche che la vita è un immenso laboratorio di possibilità infinite e che la fantasia, il sogno, l’immaginazione sono alcune di queste. Un modo per scappare dalla realtà? Può darsi ma, secondo la teoria dell’evasione di Lukàcs, quanto più un’opera letteraria appare evadere dalla realtà del momento, tanto più essa costituisce una forma di contestazione se non anche di ribellione ad essa. Del resto gli aspetti, le forme del reale sono molteplici e, pertanto, vi può essere, per esempio, la realtà del sogno. E noi sappiamo quanta importanza avesse per Freud la realtà del sogno…

Dunque, la realtà è assurda e il linguaggio deve riflettere questa assurdità. La scrittura diventa inganno, menzogna, mistificazione, trucco e specchio della grande impostura che è la realtà. Ma finisce anche per essere –  insieme al gioco d’azzardo –  una forma, una modalità di esistenza, un modo per sentirsi vivi e per poter anche guardare alle cose di questo mondo in maniera distaccata e con un superiore sorriso.

I temi e i motivi ricorrenti nelle opere fantastiche, gotiche, nere, notturne di Landolfi sono il caso e l’imprevedibile; l’orrido e la bestialità; la luna e tutto ciò che è lunare, come il lupo mannaro; il sogno e la follia; la solitudine e il vuoto esistenziale; la sensualità, anche morbosa e animalesca; l’orrore, il ribrezzo per certe deformità fisiche o sensoriali; le paure anche inconsce nei confronti di animali notturni, come scarafaggi, ragni, topi e vermi; la donna sensuale ma inafferrabile; le cose strane, singolari e inspiegabili; la vita quotidiana e banale della provincia, con i suoi emblematici personaggi; il surreale e il grottesco; l’istinto e la ragione; l’irrazionale e il razionale nella vita degli uomini; il mistero, l’inconscio e l’ignoto che ci fanno paura; i nostri incubi e i nostri fantasmi  più diurni che notturni, più inconsci che consci; il sesso e il gioco soprattutto, come attività vitali, come possibilità di vita, di rivalsa e di compensazione; la sofferenza e la disperazione; il sentimento della  noia e dell’estraneità esistenziale; il destino dell’uomo e delle cose nell’imponderabile della vita; l’impossibilità dell’autenticità dell’amore e della vita stessa; l’autoanalisi e lo scavo interiore; il sentimento della vanità e nullità del tutto, insieme alla possibilità che la storia  possa un giorno finire e l’uomo scomparire come una qualsiasi altra specie della terra; l’impossibilità di essere felici; il viaggio fantastico in luoghi che non esistono; infine, la vita, la morte e Dio, il quale sembra aver lasciato l’uomo solo su questo inferno che è ormai diventato il mondo.  «Mio Dio, mio irraggiungibile Dio!» scrive Landolfi ne La bière du pecheur e, in una poesia de Il tradimento, ecco cosa si legge: «Di gesso è il mondo a noi creato;/ E così, dopo tanti affanni e sogni,/ Ritroveremo un dio di gesso». E infine nella poesia L’assiuolo caduto scrive: «(…) Così con ambedue l’ali spezzate,/ Io mi difendo da Dio…».

Landolfi, come Svevo, è un nevrotico, un malato che vive con disagio nella realtà, nel presente perché riesce a vedere e a cogliere tutte le incongruenze e le contraddizioni che un sano non potrà mai vedere e cogliere. Autentico com’è, non può adeguarsi e compromettersi con questa realtà e con questo mondo che sono così assurdi, irreali e privi di senso. E così finisce per appartarsi perché si sente ad essi estraneo. Non è superbia la sua, non è egotismo e non è costruzione artificiale di un personaggio dandy, maledetto e bel tenebroso inavvicinabile. È solo presa di coscienza su una realtà e su un mondo che non sentiamo nostri, così inautentici e alla rovescia come sono e, dunque, così diversi da noi.  E cosa resta a uno scrittore, a un poeta che ha compiuto una tale presa di coscienza? Restano la letteratura, la scrittura e il gioco letterario: con la parola e la lingua, forse, possiamo illuderci di prenderci gioco e di rivalerci sulla realtà-irrealtà (che non ci appartiene, ma ci è ostile) fino a rovesciarla e demistificarla. Per Landolfi la realtà è quella cosa «preoccupante, faticosa, minacciosa» che vede sfuggire al nostro controllo e alla nostra comprensione. Solo la letteratura, la scrittura e una superiore e distaccata ironia sulla irrealtà di questo mondo consentono di poterla dominare, di non subirla e di giocare con essa al di sopra e al di fuori del tempo e dello spazio, dei quali siamo prigionieri. L’iperrealista Landolfi è riuscito in modo magistrale in questa operazione sulla realtà-irrealtà attraverso il genere fantastico-surreale o magico o metafisico che dir si voglia, con quella leggerezza e quel superiore sorriso che tanto piacquero a Italo Calvino. 

«La letteratura non è vita» scrive Landolfi, ma è pur sempre un’alternativa, una possibilità di vita e lui, questo, lo sa molto bene. Infatti, se non ci è consentito vivere per dar voce a se stessi, ci è, tuttavia, concesso il dono della scrittura per poter dare voce al nostro Io che si ribella di fronte all’irrealtà della realtà e crea una contro-realtà letteraria che è comunque preferibile alla prima in quanto consente di essere altro, in quanto consente di essere altrove, magari negli abissi più profondi e misteriosi dell’animo umano, di quello dei nostri simili ma anche del nostro.

E, dunque, giunti a questo punto, possiamo concludere con Landolfi, che «la letteratura comincia dove finisce la letteratura».

*Salvatore La Moglie, scrittore

Salvatore La Moglie