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Ricordo della scrittrice Cristina Campo, a 100 anni dalla nascita

Cento anni fa nasceva Cristina Campo, pseudonimo di Vittoria Guerrini, grande scrittrice ingiustamente dimenticata. Verbumpress le vuole rendere omaggio con questo intervento dello scrittore 

Cristina Campo appartiene a quella categoria di scrittori che in vita non hanno la fortuna di un immediato riconoscimento di pubblico e di critica e, quindi, non riscuotono subito il successo che pur meriterebbero. I riconoscimenti e gli apprezzamenti giungono sempre tardi, quando chi dovrebbe goderli e viverli, anche come motivo di conforto a una particolare Weltanschauung per cui ha vissuto e ha lottato, non è più su questo mondo.

Cristina Campo è  stata una scrittrice e una poetessa che ha avuto una sua singolare concezione della vita e del mondo per la quale ha dato tutta se stessa fino alla fine, lottando –  soprattutto con la scrittura –  in modo appartato e solitario. Donna schiva, fuori dalle mode del momento, lontana da lotte politiche e ideologiche da intellettuale engagé e, dunque, lontana anche da opportunismi, ipocrisie ed ambiguità contingenti, nasce a Bologna il 29 aprile del 1923. Il suo vero nome è Vittoria Guerrini e la famiglia da cui proviene è fatta di musicisti e di scienziati. Il padre, Guido, è un musicista rinomato e il fratello della madre – Emilia Putti – è un ortopedico di fama presso l’ospedale Rizzoli di Bologna. Di famiglia borghese benestante, dunque, la Campo vive un’infanzia riservata e senza la compagnia degli altri bambini  per via di un difetto cardiaco che si trascinerà per tutta la vita. La sua condizione fisica di piccola ammalata le impedisce anche di frequentare la scuola in modo regolare. Questo particolare della vita della Campo sarà poi interpretato, positivamente, come una fortuna, dallo scrittore e critico Elémire Zolla, marito della poetessa Maria Luisa Spaziani, con il quale la Nostra stringerà solida amicizia. La frequenza discontinua della scuola avrebbe cioè contribuito a fare della Campo quella che poi sarebbe stata: una persona particolare, singolare, certamente non comune. Riceve lezioni da insegnanti privati e si può dire che gran parte del suo sapere e della sua cultura sono frutto di un eccezionale lavoro di autodidatta. Si pensi alla lingue straniere: essa le apprende leggendo i grandi della letteratura universale e così –  ovunque si trova, a Parma come a Firenze –  comincia a tradurre, per editori e riviste, Katherine Mansfied, Emily Dickinson, W.C. Williams, John Donne, Virginia Woolf, Hofmannsthal, Holderlin, Pound, T.E. Lawrence, Eliot e l’amatissima Simone Weil.

Pur se schiva e solitaria, di carattere piuttosto chiuso e introverso la Campo conosce e stringe relazioni con tanti intellettuali del Novecento. A Firenze conosce Mario Luzi, i germanisti Leone Traverso e Gabriella Bemporad, ma anche le letterate Margherita Dalmati e Margherita Pieracci Harwell, la quale sarà poi la curatrice delle sue opere. Sul finire degli anni Cinquanta ha inizio la lunga amicizia con Elémire Zolla. La sua aristocracità intellettuale e il suo particolare modo di essere le fanno incontrare più di una difficoltà nei rapporti con gli altri intellettuali. Si pensi solo all’incomprensione e al contrasto che ha con la scrittrice Anna Banti, che dirige la rivista Paragone alla quale collabora e su cui pubblica la traduzione delle poesie di John Donne, poeta metafisico contemporaneo di Shakespeare.

Cristina Campo è una donna dotata di grande sensibilità in generale e religiosa in particolare. Ha sete di Assoluto e di Infinito e, pertanto, in un’epoca in cui la cultura è dominata dall’impegno politico, dall’impegno sociale e tecnicamente dallo sperimentalismo e dalla poetica delle neo-avanguardie è naturale che la Nostra si debba trovare isolata e ai margini, vera e propria vox clamantis in deserto. Insomma, una vera rarità e non deve, dunque, meravigliare se tuttora Cristina Campo non è conosciuta da un vasto pubblico, se è solo da alcuni anni a questa parte che vi è stata una sua riscoperta e una sua rivalutazione e, infine, se la stragrande maggioranza dei testi scolastici la ignora.

Cristina Campo ha scritto due raccolte poetiche di grande raffinatezza e di profonda ispirazione religiosa: Passo d’addio (nel 1956) e Diario bizantino (pubblicato postumo nel 1977, anno in cui muore a Roma i 10 gennaio). Di grande finezza sono pure due raccolte di saggi: Fiaba e mistero (del 1962) e Il flauto e il tappeto (del 1971). Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 la casa editrice Adelphi ha pubblicato quattro suoi libri: La tigre assenza, Gli imperdonabili, Sotto falso nome e le belle Lettere a Mita. Nel 2002 Adelphi ha pubblicato pure Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, la biografia che Cristina De Stefano ha dedicato alla scrittrice.

Tutta la mia forza è la mia solitudine, ha lasciato scritto Cristina Campo ed è una frase in cui crede fortemente lei che aspira all’Assoluto. Perché l’Assoluto e la sua ricerca richiedono la solitudine, il raccoglimento interiore, il dialogo dell’anima con se stessa. E Cristina è essenzialmente un’anima più che un essere in carne ed ossa; un’anima che aspira alla Bellezza perché sa, come Dostoevkij, che  la bellezza salverà il mondo  e sa  come Keats che  la  bellezza è verità e che la verità è bellezza. E la Bellezza, in Cristina, è sinonimo di Verità, di Perfezione, di Silenzio (il silenzio è bello –  diceva Dostoevskij –  e il taciturno è sempre più bello di chi parla), un silenzio in cui a parlare è Dio, Dio che è senza tempo e fuori del tempo, Dio che è Infinito, Assoluto, Bellezza, Eternità e Verità insieme.

Si potrebbe parlare, per la nostra autrice, di tensione verticale proprio per questo suo tendere – con passione, tremore e trepidazione –  lo sguardo, gli occhi e soprattutto l’anima verso l’alto, verso  il cielo, verso l’Assoluto, verso Dio che non è di questo mondo e vive al di là e al di fuori del mondo pur essendo nel mondo.

La Campo detesta il tempo che scorre e soprattutto quando scorre privo della presenza di Dio. Essa vive in un’epoca e in una società ormai avviate alla postmodernità e  quindi alla secolarizzazione, alla laicizzazione e alla scristianizzazione. Una società e un’epoca che vivono una profonda crisi spirituale e morale. È vero che la scienza e il progresso fanno passi da gigante ma l’uomo sembra perdere ogni giorno di più i veri valori e i sentimenti più alti, mentre la coscienza individuale e collettiva si fa sempre più debole e rinunciataria. L’anima di Cristina,  profondamente religiosa, di  una  religiosità che vuole richiamarsi alla tradizione e al cristianesimo delle origini (quello cioè più genuino) porta la scrittrice a osteggiare fortemente certe conclusioni moderniste del Concilio Vaticano II voluto da papa Giovanni XXIII e continuato  da Paolo VI. Quando vede che la Chiesa pone fine alla messa in latino e al canto gregoriano che tanto ama, ecco che scrive una specie di appello per salvare la liturgia tradizionale e si mette  a raccogliere anche firme per evitare quello che considera, evidentemente, una catastrofe religiosa. Riesce a coinvolgere nomi autorevoli come Auden,  Borges, Bresson, De Chirico, Del Noce, Montale, Quasimodo, Zolla, ecc. Non solo, ma nel’66 fonda la sezione italiana di Una voce, associazione per la salvaguardia del latino nelle chiese, con vicepresidenti Macchia e Montale. In questo periodo è un’ammiratrice di monsignor  Lefèbvre, ribelle alla Chiesa del Vaticano II, e si avvicina all’ortodossia bizantina, alla purezza e alla bellezza dei suoi riti. 

Siamo verso la fine degli anni Sessanta e Cristina soffre molto per la sua malattia al cuore e smette anche di scrivere o, comunque, scrive poco. «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto ancor meno», dice di sé l’imperdonabile Cristina Campo, imperdonabile per la sua particolare solitudine (che è, poi, una particolare forma di esistenza), imperdonabile per la sua sete di Assoluto, imperdonabile  per il suo aristocratico ritiro dal mondo, un mondo così diverso da lei e che, certamente, non ama molto. Perché lei viaggia  in un modo e il mondo in un altro. E, dunque,  come potrebbero comunicare e, soprattutto, capirsi? Perché si può anche comunicare ma senza capirsi. Ed è allora che si muore, che si muore dentro. «La morte non è nel non comunicare, ma nel non poter essere compresi» ha scritto Pasolini, un altro, grandissimo, irregolare  della letteratura italiana. E così Cristina ama la solitudine e tende verso l’alto, verso un oltre che le riempie  l’anima più che la vita e le fa sentire il brivido dell’Immenso, dell’Assoluto un po’ come doveva sentirlo Simone Weil, donna profondamente religiosa e di  non comune sensibilità che, non a caso, la Campo pone tra i suoi autori più amati. Cristina, come la Weil, è una figura ascetica, mistica e la stanza della loro solitudine è come un tempio, il tempio in cui si raccolgono e tendono all’Assoluto, alla perfezione dell’anima. 

«(…) Sempre meno m’interessano i problemi del mondo (ormai indifferenziati), sempre più quelli della perfezione, della attenzione a ciò che si fa. (…)», confessa la Campo al critico Piero Pòlito, in una lettera del 23 marzo del 1963 (Nuova Antologia, aprile-giugno 1997). Nella stessa lettera fa pure una dichiarazione di umiltà: «Sei fiorentino, e non mi risponderai con frivolezza se ti dico che io non sono una scrittrice ma una donna di casa che quando ha  tempo scrive (…).. E scrive, però, con un registro linguistico e stilistico alquanto alto, pur nella ricerca dell’essenzialità». 

Forse non sbaglia Pietro Citati quando la definisce «una trappista della parola e», anche,  una «anacoreta tra furia e dolcezza». Insomma, quella della Campo è una lingua austera alla ricerca continua della perfezione. Questo è il suo stile. Tale la donna, tale lo stile. E si badi che la nostra  autrice ha per la parola –  soprattutto per la parola scritta –  una sorta di religioso rispetto che confina quasi col timore. «La parola», dice Cristina, «è un tremendo pericolo, soprattutto per chi l’adopera». Tanto che si può (e si deve) scrivere –  l’espressione è sua –  «a piedi nudi», in segno di rispetto, e non di offesa,  alla parola scritta. La parola, per  la nostra poetessa, non è solo evocativa, ma è anche simbolica e deve racchiudere una verità. E questo perché, certamente, tiene sempre presente il fatto che la Parola, il Verbo è Dio stesso, come insegna la Bibbia. Pertanto la parola diventa lo strumento di ricerca della Perfezione, della Bellezza, della Verità, dell’Infinito, dell’Assoluto che non sono che eteronomi di Dio. Ed è in questa religiosa  ricerca che Cristina trova la sua felicità interiore e anche la sua libertà, che è soprattutto libertà spirituale.

Oggi la critica sta riscoprendo l’inattuale e imperdonabile Cristina Campo e la colloca tra i maggiori autori del Novecento. Quando morì, a soli 54 anni, ci fu un silenzio quasi totale e la notizia  passò anch’essa quasi inosservata. Una cosa davvero imperdonabile. Non è un caso che verso gli ultimi anni Cristina è andata allontanandosi da un mondo letterario dal quale non si sentiva capita e si vedeva emarginata e isolata. «Quando parlavo con gli scrittori che deserto!», dirà Cristina con amarezza.

Alla poetessa  che –  come Pessoa –  amava presentarsi al mondo, umilmente,   con gli eteronomi, non le fu perdonato la sua tensione verticale, che era, poi, una particolare forma di protesta contro un mondo in cui non si riconosceva e non si identificava. Oggi si è cominciato a perdonare la sua diversità  e da colpevole è ormai riconosciuta innocente, proprio come lo sono le sue poesie e le sue fiabe. Resta, però, il fatto che nonostante la critica l’abbia riscoperta, la Campo è una scrittrice ingiustamente dimenticata in questi ultimi vent’anni e resta, purtroppo, poco conosciuta dal grande pubblico e sconosciuta del tutto nel mondo della scuola.

*Salvatore La Moglie, scrittore

Salvatore La Moglie