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Le case dai tetti rossi di Alessandro Moscè

Un racconto-documento sullo sfondo di una grande umanità

La vendita della casa di Altera e Ernesto, a Ancona, diventa per Alessandro Moscè l’occasione di compiere un viaggio nella memoria e tornare indietro nel tempo, agli anni dell’infanzia, nel quartiere, dove, vicino la casa dei nonni, sorgeva la struttura dell’ospedale psichiatrico noto allora come le case dai tetti rossi. Nasce così il romanzo Le case dai tetti rossi (Fandango, 2022), in cui l’autore Moscè compie un recupero memoriale e documentario finendo per raccontare e ricostruire un intero spaccato storico, quello della realtà dei manicomi prima della Legge Basaglia del 1978, considerati, prima della promulgazione della nuova norma che avrebbe riformato l’approccio alla malattia psichiatrica, alla stregua di luoghi di reclusione e di internamento. 

Il viaggio nella memoria inizia quando l’autore torna alle case dai tetti rossi e introduce diversi piani narrativi cui corrispondono diversi momenti spazio- temporali, in una corresponsione dialogica tra passato e presente che scandisce i ritmi di una scrittura sospesa tra la poeticità del ricordo e l’esigenza matura della documentazione. Prende corpo così un microcosmo di tipi umani impregnato di storie dolorose e sofferta umanità, ma anche di profonda bellezza e comprensione. All’improvviso, nell’Ancona che si apre alle strade della quotidianità, agli angoli che conducono le donne al mercato, verso i posti di lavoro, nella parte della città non ancora affollata e segnata dai ritmi frenetici del centro, ecco che si arriva ai tetti rossi: 

Nei primi anni Settanta un incrocio di strade ancora poco trafficate dagli impiegati pubblici che avevano l’automobile, per lo più la 600 multipla o la Bianchina, si dispiegava costeggiando i palazzi male intonacati, costruiti nell’immediato dopoguerra. Facevano da contorno al rione del Piano, in basso, e a quello di Pusatura, Posatora, l’unica via d’accesso da nord, in alto, vicino la chiesa votiva di Santa Maria Liberatrice […] In mezzo, in via Cristoforo Colombo, c’era il manicomio che sostituì la Casa dei Pazzi di via Fanti, dove vivevano i mentecatti e chi disturbava la quiete pubblica.1

La malattia mentale, ricostruisce l’autore, prima della chiusura dei manicomi era intesa come stigma sociale, come pericolo per la collettività e dunque oggetto di eliminazione, di allontanamento, sia a livello verbale, nei tabù linguistici, sia a livello fisico, come esclusione dalla vita sociale, dalla famiglia, dalla norma comunemente intesa:

Me lo ricordo bene il manicomio a pochi passi dalla casa della famiglia di mia madre, ero un bambino che trascorreva l’estate da nonna Altera. Non ho mai dimenticato i racconti sventurati, le volte che mi sono avvicinato a quel luogo malfamato con il figlio del giardiniere, il mio amico Luca, il timore di superare il cancello, i rimproveri di mia madre quando fissavo i degenti appoggiati al cancello, le strattonate, le raccomandazioni di girare al largo se fossi uscito da solo per comprare i fumetti incellofanati, a poco prezzo.2

L’autore è solo un bambino quando andava a spiare i degenti del manicomio, tra gli archi e le colonne della struttura oggi riqualificata e convertita ad altro uso, circondata dagli alberi e dai giardini di Arduino, il giardiniere addetto alla cura delle piante ma che sembra un po’ un giardiniere dell’anima, il detentore delle storie di ognuno: Arduino racconta nel suo diario di un «mondo inabissato», di un luogo dove il dolore, il disfacimento sembrano la costante di una realtà dantescamente senza Dio, dove «l’infelicità umana può toccare punte estreme, ridurre a vegetali con un cervello illeso e un corpo disfatto» (p.92), anche se fuori spunta la luna:

I tetti rossi, del colore del sangue, accoglievano i barboni, i malnutriti, gli ubriaconi, chi era tornato dalla guerra frastornato, con una pallottola conficcata da qualche parte, chi non riusciva ad alzarsi dal letto, chi era nato straccu, stanco, chi aveva una deformazione fisica e chi era figlio di genitori strani, spostati, con il diavolo in corpo, il diaolo. Ci finivano anche gli epilettici che cadevano a terra. Si pensava che le convulsioni fossero una malattia mentale ereditata, che il malocchio avesse consumato cuore e anima del paziente, non solo il cervello. Questi erano i segnati da Dio, di cui bisognava diffidare. I fori de testa, gli schizofrenici, conservavano lo sguardo fisso, l’orbita degli occhi sproporzionata e le braccia lungo un corpo filiforme o lievitato.3

L’esperienza della sofferenza domina il testo fino a definire la struttura manicomiale come riconducibile alla dimensione di una realtà altra. «Luogo malfamato», oggetto di «racconti sventurati», il manicomio è in realtà una città nella città, con centinaia di ospiti. Entrare ai tetti rossi, «del colore del sangue», è esperienza mistica e inquieta: lo è per il bambino Alessandro, che tra quegli archi vedi gli sventurati come corpi senza nome cui la malattia e la reclusione sottraggono forme di umano decoro e umana dignità, e lo è per l’autore ormai adulto, a distanza di anni, che ripercorre quei corridoi, nell’edificio ormai vuoto dove ancora si trovano vecchie cartelle cliniche, con i nomi ormai sbiaditi e medicinali scaduti. Il viaggio attraverso le stanze del manicomio diventa un viaggio attraverso un’umanità travagliata e sofferente, al pari di quello dantesco e di quello leviano, un viaggio dell’io che si specchia con se stesso, come già per Alda Merini, o ancora il viaggio di una società che si interroga sulla propria capacità di relazione con la diversità, perché, come cita Moscè in apertura di volume, «una società democratica è tale se sa convivere con le proprie imperfezioni, con tutto ciò che fa male» (Cesare Garboli), ed è civile e umana se sa ridurre gli ostacoli all’altrui realizzazione (tutto ciò che fa male), assicurando anche ai più fragili il rispetto dell’umana dignità:

“Che dicono i matti, Ernè.”

“Sempre la solita.”

“Si lamentano? Li maltrattano?”

“E che ne so.”

“Non conta la scorza, conta il cuore.”

“Non ti rendi conto, tu.”

“Di cosa, Erne?”

“È tutto un sudiciume li dentro. Quelli gridano, gemono, 

si dondolano, ridono al sole.”4

Ma il manicomio è anche il luogo dove conta il cuore, come dice nonna Altera, in cui tuttavia resta uno spiraglio di umanità. Resta nei gesti dei personaggi, in Nazzareno che crede di essere speciale, nel paziente di Osimo, in Marta, Giordano, nella pietà di Arduino, nelle cure di Suor Germana, negli sguardi di chi sa cogliere un sorriso, un pegno di riscatto, nella devozione del nuovo medico Lazzari, che, anticipando Basaglia, introduce il concetto di cura come espressione di umanità, di normalizzazione, come espressione di una speciale normalità: 

In manicomio l’arte aiutava i pazienti a sentirsi meglio. Dipingendo si assegnavano un ruolo, si fortificavano, si proteggevano dalla corrosione dell’anima. Avevano bisogno di riconoscimento, approvazione. Animavano un mondo che nel segno lasciava il mistero della loro stessa condizione di persone diverse, irregolari. Con un graffito, un ritratto elementare, un disegno astratto, uscivano dalla loro prigionia. Mettevano ordine nella mente, come faceva Arduino quando tagliava un cespuglio facendolo assomigliare a un essere umano.5

La terapia diventa fondamentale, e Moscè insiste in particolare sulla necessità di un riconoscimento umano quale espressione di un umano sentire, sull’amore, che appare in controluce come dimensione altra del dolore, e sembra un po’ il fil rouge di un racconto che sa coinvolgere e far riflettere, farsi denuncia sociale e riappropriazione memoriale, fino a cristallizzarsi nella nostalgica dolcezza che pervade le ultime pagine, tra i ricordi di ieri e il tempo dilatato dalla maturità della contemporaneità. 

*Laura D’Angelo, poetessa, scrittrice


1. A. Moscè, Le case dai tetti rossi, Fandango, Roma, 2022, p. 7.

2. Ivi, p.8.

3. Ivi, p.13.

4. Ivi, p. 17-18.

5. Ivi, p.94.

Laura D’Angelo