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Il giardino dei libri perduti

L’ambiente è di quelli magici per me. Una specie di grande magazzino dell’usato. Non posso entrare in questi luoghi, mi si parano immediatamente davanti tutte le storie infilate, inzeppate dentro gli oggetti che sono appartenuti ad altri e che conservano comunque, sulle superfici un po’ lise, le storie, i giorni, i litigi e gli amori. Mi innamoro di un piccolo cofanetto attorno al quale qualcuno ha incollato con cura un merletto sbiadito; e della piccola poltrona di velluto rosso fuori moda e scomoda, che sicuramente avrà accolto pensieri timidi e scarpe con mezzi tacchi, come si portavano un tempo. Qualcuno ci si sarà seduto con sussiego su quella poltroncina, per una visita di cortesia o di circostanza. Passo in rassegna rapida tutti quei soprammobili inutili di cui non riusciamo mai a disfarci davvero, che accumuliamo e spolveriamo con inutile cura. Pezzi di una Italia sana, onesta, contadina. Messi lì a raccontare il viaggio di nozze, la bomboniera della comunione, la prima laurea del primo figlio laureato. Tutte cose inutili che però connotano un’epoca, hanno uno stile e ci fanno risalire indietro con la memoria. Ho girovagato un po’ con il cofanetto tra le mani. Potevo non prendere questi due orecchini dalla foggia antica? Stanno bene dentro il cofanetto, sembrano fatti l’uno per l’altro. 

Mi dirigo subito nel reparto dei libri. Libri dal dorso un po’ rovinato, dalle pagine leggermente gonfie e già toccate dal tempo e dall’umidità, libri con costole perfette in brossura, immacolati, a far da sfondo o a dare un tono di colore in qualche ambiente presuntuoso. Tra i libri piccoli una vecchia edizione del libro “Cuore”, qualche spaginata versione di greco antico, un Aristotele, una raccolta di poesie di Ada Negri e poi… un tuffo al cuore. Anche il mio piccolo libro, la raccolta di poesie La pietra serena, dal formato pocket, edita nel 2000 da Tabula Fati. 

Il libro è ben conservato, sembra nuovo. Una strana sensazione mista di rabbia e di orgoglio si impossessa di me. Come osano relegare il mio libro tra l’usato, ora gliene dico quattro al mister che sta dietro al bancone. Ma è improbabile anche il bancone, forse rimasuglio di qualche birreria fallita, e il mister ancora di più. Poi in fondo io sono timida, lo penso ma non lo faccio e continuo ad aggirarmi negli inferi dei souvenir. Ma le mie mani hanno già prelevato il libriccino e lo hanno aggiunto ai due orecchini e al cofanetto portagioie con il merletto fatto a mano. Esco di fretta. Ma appena fuori il girone del dimenticatoio, prendo subito il libro, stacco la nuova targhetta del prezzo e lo apro. Sembra intonso, ma comincio a vedere qualche segno di matita, vergato con leggerezza accanto ai titoli delle poesie. Poi parole di apprezzamento accanto ad alcuni versi: “bello, molto bello, perfetto”, “questo è sublime”, “mi sembra meraviglioso”, “davvero bello”, “proprio così”. 

Tutte queste frasi sono state scritte a matita, vergate con una bella grafia e non restano incise sulla pagina. Sono lievi, delicate. A casa non riesco a togliermi questo pensiero dalla testa. Riapro il libro per capire meglio. Lo sconosciuto o la sconosciuta deve conoscere bene la poesia. Ha segnato le stesse frasi che avrei segnato io, ha messo un asterisco a quelle che mi piacciono di più. 

Sarà un lui o una lei. Vecchio o giovane. Dalla grafia sembra una persona anziana. Che so, una ex professoressa di italiano in pensione che ha voluto disfarsi del libro perché… Perché? Potrebbe aver cambiato casa e nella nuova casa non c’è posto per me. Eppure un libriccino così piccolo, possibile che non avrebbe voluto conservarlo? Io gli avrei trovato posto anche in bilico, in doppia o tripla fila su qualcuno di miei scaffali, ma non l’avrei venduto… e poi per un guadagno così ridicolo. Niente, l’indignazione non accenna a scemare. Penso alla vita degli scrittori. A quanta fatica gioia e dolore in me suscitavano quei versi, quelle parole. E poi finiscono… dove finiscono? Ma in fondo erano piaciuti anche a lei, però. Intanto ho deciso che è una lei. Deve aver avuto schiere di studenti, formato generazioni di avere con la acca e scienza con la i. Chissà se porta gli occhiali. Dovrebbe avere dita forti e curate. Una pelle alla nivea, curata senza troppe pretese, una donna che ha fatto tanta fatica per imporsi in una famiglia maschilista. Fiera di portare a casa il suo stipendio, dignitosa nel vestire e nel camminare. Con capelli bianchi, sì o tuttalpiù grigi. Un bel grigio perla, penso. Magari ha una collana di perle corta, di quelle girocollo, con la montatura preziosa ed è un regalo di matrimonio di tanti anni fa. Come questi orecchini con la perla un po’ ingrigita. Magari vive da sola. Poi mi si fa strada un brutto pensiero nella mente. 

Forse questa bella signora anziana non c’è più. E gli eredi si sono divisi le vesti. A qualcuno sarà toccata la libreria del salotto. “Tutti ‘sti libri vecchi, incartapecoriti”, “tutta robaccia che non vale n’euro”. La mia indignazione di autrice ha lasciato posto ad un altro pensiero. E magari in quella casa, al posto della libreria avranno messo un mega schermo acquistato a rate, tanto lo paghi il prossimo anno. E della anziana signora forse resta una foto in qualche cornice, su un mobile. 

Riprendo il libriccino tra le mani, lo apro e rileggo tutte le poesie segnate. Hai scelto le più belle, amica. Allora ti metto in prima fila tra i miei libri, nel palchetto di quelli che voglio tenere sempre a portata di mano. Per rileggere un verso, una storia bella. Per confrontarmi con quel mondo incredibile, immenso che sta dentro I libri di Proust, in una pagina di Macondo, nelle memorie di Adriano. In quel palchetto metto i libri che mi piacciono assai, perché quando sono inquieta ne prendo uno a caso e c’è sempre quella frase scritta per me, quella che solo io conosco, come dice Erri De Luca. Quella che ho già segnato a matita, leggermente, oppure altre volte sottolineato con l’unghia. Quella evidenziata con una penna rossa, mentre facevo altro, probabilmente. Quella che ho sottolineato con la matita per le labbra, e chissà dov’ero per non avere una penna ad inchiostro o una matita con me. Quella che è raccontata da un post-it ballerino dai colori fluorescenti che magari svetta in mezzo alle Confessioni di Agostino. Il segnalibro che mi hanno portato dal Portogallo che ingombra proprio l’inizio di Fontamara. Le mappe di viaggio in mezzo ai libri di Paolo Rumiz. E tra le poesie di Pavese ci sono le foglie raccolte in un bosco di cui non posso dire di più. Eccoti, amica mia, in questo palchetto, come ospite d’onore. Accanto ai bellissimi libri blu, ai giganti dalle costole dorate della letteratura universale. Ecco, qui sei in buona compagnia, amica mia. E puoi leggere i libri più belli del mondo. Hanno pagine sottili sottili, però. Sopra non puoi scriverci nulla. Ma è così bello sapere che puoi guardare anche Borges e Wolf, affacciarti tra le poesie di Dickinson e Montale, viaggiare nei racconti di Kafka. Qui non puoi perderti mai, sei ormai da me, nel tempo ritrovato. 

*Patrizia Tocci, scrittrice

Patrizia Tocci