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La Messina settecentesca e quella ferita del Terremoto del 1783

Sta cumminannu un cinque i frivaru! Il terremoto che sconvolse la città dello Stretto e la Calabria

Un tempo a Messina, se qualcuno fuori di sé metteva tutto a soqquadro scatenando un pandemonio, si usava sussurrare “Sta cumminannu un cinque i frivaru!”. Era un chiaro riferimento al 5 febbraio 1783 giorno funesto, quando un orribile terremoto sconvolse la Regina del Peloro e la Calabria.

Un raro volume settecentesco, Storia dell’anno 1783 divisa in Quattro Libri, e stampato a Venezia a Spese di Francesco Pitteri, di quel sisma riferisce. L’opera non è datata, ma sicuramente apparve iniziando l’anno 1784. L’autore (anonimo, ma forse trattasi dello stesso Pitteri), così esordisce nell’ultimo dei libri, il quarto: “Il Terremoto accaduto nella Calabria, ed in Messina nel dì 5 Febraro non ebbe ne’ suoi effetti alcun esempio nella Istoria dell’Europa fino a nostri tempi. Non vi è che quello delle dodici Città dell’Asia, successo sotto Tiberio, e che Tacito lo ha così bene descritto in poche pagine nel secondo Libro de’ suoi Annali…”

Seguono impressioni, notizie, considerazioni, ovviamente di prima mano, ben descritte da pag. 231 a pag.243; e, secondo noi, conviene parlarne, ricorrendo, a giorni, il 240 ° anniversario di quel triste evento. Intanto, “Un’idea del Teatro del sisma, che, secondo i rapporti giunti a Napoli, abbracciò una parte del mare Jonio, tutta la Calabria meridionale, le isole Lipari, la punta settentrionale della Sicilia e quella parte del mar Tirreno che si unisce al Jonio sopra il Canale di Messina”.

Il terremoto avvenne senza alcun segno preventivo. “La prima scossa, la più gagliarda, s’avvertì a mezzogiorno e tre quarti”, appunto del 5 febbraio.Una seconda, forte anch’essa, sopravvenne intorno alle nove dell’indomani, “e finì di rovinare Messina”. Diverse scosse, ma leggere, si contarono poi.

Le prime notizie del sisma giunsero a Napoli da Messina, “Città tanto famosa nell’Istoria- citiamo testualmente- che è diventata l’oggetto delle pubbliche calamità”. A cominciare dalla disastrosa fallita rivolta contro la Spagna della fine del Seicento. Poi la peste del 1743, “che ne divorò quasi tutta la popolazione…”

Il terremoto di cui diciamo, “nello sviscerarne il suolo, l’ha resa un cumulo di rottami”. La bella Palazzata, caduta da cima a fondo; senza rimedio distrutto il Villaggio di Torre Faro…E, ancora, “il Real Palazzo, i Monti di Pietà, il grande Spedale, i due Real Convitti, la Chiesa Madre col suo gran campanile…” E “li sostegni de’ cannoni si sono sollevati alcuni pollici sopra i ponti dei legni ancorati a Messina”.

Cogliamo nel vecchio libro una annotazione sorprendente: i fenomeni della Natura osservati allora in diverse parti del Globo, “ebbero una piena analogia ai contemporanei terremoti di Messina e della Calabria”.Per esempio, la foschia o caligine, comparsa appunto da noi, differente da qualsiasi altra nebbia ordinaria, e continuata per diversi mesi, si verificò tale e quale “in Morea, nel Bosforo Tracio, nello Stretto di Gibilterra, nelle coste dell’Africa, nella Senna, nel Danubio, sul Tamigi, sulla Vistola…”

Il Re delle Due Sicilie, citiamo ancora testualmente, “seguitando gl’impulsi del suo cuore benefico, pensò con ogni sollecitudine a tutti i più pronti, e possibili ripari”.E ordinò “che di tutti gli argenti delle Chiese rovinate si formasse effettiva moneta, e si dispensasse in benefizio dei miserabili”.Il generoso sovrano provvide  ad inviare anche, tramite il viceré di Sicilia, “denaro, viveri, ed in abbondanza tutto ciò che potesse essere di sollievo agli infelici”.E di quanto avvenne a Messina, il Senato stilò una “distinta Relazione” e l’inviò devotamente al re.

*Antonino Sarica, giornalista

Antonino Sarica