VerbumPress

I disperati della rotta balcanica

In piazza a Trieste cibo, abiti e amore

La gamba di Umar Umar non guarisce. A guardarla fa venire i brividi. Sembra un principio di cancrena. Lorena disinfetta, sparge polvere antibiotica e cicatrizzante, fascia. Cerca di rivitalizzare quell’arto che tre anni fa ha patito le scosse elettriche inflitte dalla polizia croata. Ma sono le ferite dell’anima quelle che sanguinano di più. E allora Lorena offre amore, quello che forse più di tutto è mancato nelle vite dei ragazzi della “piazza del mondo”. Per molti di loro lei è mamma. Siamo in Piazza della Libertà, davanti alla Stazione di Trieste. Qui, dal 2019 (e prima, dal 2015, a Pordenone), tutti i santi giorni, dalle 17 fino a tarda serata, Lorena Fornasir e il marito Gian Andrea Franchi, con Anita Gorelli e altri volontari, accolgono i migranti provenienti dalla rotta balcanica. Da allora ne sono passati almeno 4.000. Quando il clima è più mite, la tratta è più facilmente percorribile, perciò arrivano anche cento persone al giorno, un afflusso difficile da soddisfare. Pensionati, lei psicologa clinica e psicoterapeuta, lui insegnante di Filosofia, d’inverno spesso ammalati per le intemperie, cascasse il mondo, ma sono lì. Questo impegno gratuito ha fatto il giro dei media, ed è diventato un film, ma ha procurato loro anche una denuncia, poi archiviata. «Ma che mi ha lasciato un grande dolore, perché mi è costato l’incarico di giudice onorario presso il Tribunale dei minori», dice Lorena. Bisogna essere in piazza per capire. Anche senza fare nulla. Come me. Il giornalismo è anche questo: stare ed osservare. Respirare l’aria, percepire l’atmosfera, cogliere gli sguardi. Ero lì il 31 gennaio, con il collega Enrico Ferri. Per lui non era la prima volta. Sapeva bene che cosa succede e che cosa portare. E infatti l’auto sovrabbondava di aiuti. 

I ragazzi arrivano in piazza dopo aver camminato per mesi, in alcuni casi anche per anni. Percorrono la cosiddetta via balcanica che attraversa Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria, Bosnia, Croazia, Slovenia, Italia, Austria, e su verso il nord Europa. È considerata la prima rotta migratoria di ingresso in Europa, con un aumento nel 2022 dei transiti registrati del 170% rispetto al 2021. Ci sono afghani, pakistani, curdi, iracheni, bangladesi, nepalesi, iraniani. La maggior parte sono minori non accompagnati, molti di età inferiore ai sedici anni, alcuni maggiorenni, il 50% è sotto i 25 anni. Sono stremati, affamati, disidratati, impauriti, alcuni hanno ferite dovute alle bastonate delle varie polizie, la scabbia è compagna costante. Ma gli occhi sono vispi, come solo quelli dei ragazzi possono essere. Sono uno spaccato sul mondo: lingue diverse, culture diverse, improbabili accostamenti di abiti raccattati qua e là. Per tutti lo stesso sogno: un luogo migliore dove vivere. Che non è necessariamente l’Italia. Anzi, la maggior parte vuole andare in Francia o in Germania dove hanno parenti o amici, ma dal 2020 sono state intensificate le misure contro chi prova a varcare i confini europei. Francia e Germania non vanno troppo per il sottile, soprattutto con i pakistani, considerati migranti economici. A Trieste sostano qualche giorno. Per questo vengono chiamati “transitanti”. Necessitano di un pasto caldo, di una doccia, di un cambio, di sostegno psicologico, di informazioni chiare sui propri diritti. Il passaparola funziona benissimo. Sanno di poter contare su Lorena e Andrea, e sulla rete umanitaria che ruota attorno alla loro associazione “Linea d’Ombra”. La gente invia aiuti e ringrazia per quello che marito e moglie fanno. Chi scrive un biglietto, chi manda una mail, chi un messaggio su WhatsApp. “Lorena, Andrea, siete grandi”. E c’è anche chi alle paia di calzini ha aggiunto un messaggino “You are not alone – Non siete soli”. «Questa è la solidarietà pensata, quella vera, non quella che serve a mettere a posto la coscienza», dice Lorena. Sulle panchine è posizionato il “ben di Dio”: giubbotti, piumini, felpe, scarpe, pantaloni, medicinali, kit per l’igiene. Niente è lasciato al caso. «Niente maglioni, per piacere – dice Lorena -. La lana si inzuppa di umidità e non si asciuga mai. Servono felpe». L’abbigliamento dev’essere soprattutto da uomo, perché la maggior parte dei migranti sono maschi. Poche le famiglie, pochissime le ragazze. Di conseguenza, le scarpe vanno per lo più dal 41 al 46. Ne servono tante, perché questi ragazzi hanno camminato per chilometri e chilometri, finché le calzature si sono sconquassate. E a volte qualcuno arriva scalzo. Medicare le piaghe dei piedi è una delle attività costanti dei volontari. La piazza davanti alla stazione è un luogo strategico, perché molti di costoro domani prenderanno il treno o il flixbus per tentare di entrare in qualche Paese europeo. Niente aereo per loro, servirebbero i documenti. Quando piove, tutti nel sottopassaggio. Non ci si bagna, ma gli spifferi sono terribili.

Ma la piazza è anche vicinanza, comunità. I nuovi arrivati chiedono, i volontari distribuiscono. Finché nei sacchetti non c’è più nulla. E, se rimane una sola felpa, ma sono in due ad averne bisogno, bisogna scegliere. Scegliere spezza il cuore. Come fai a decidere chi fra Mohammed e Abdullah può maggiormente sopportare il freddo? Come fai a chiedere loro ancora sacrifici? Non sono bastate le notti per strada all’addiaccio per arrivare fino a qui? Non sono bastate le torture inflitte dalle varie polizie balcaniche? O i freddi boschi della Serbia, dove per passare bisogna aggirare pericolose recinzioni? Si chiama “game” il tentativo di oltrepassare le recinzioni con filo spinato costruite dall’Ungheria nel 2015 e che percorrono i 175 chilometri di frontiera con la Serbia. Ma questo non è ancora tutto. Perché arrivare a Trieste non significa avercela fatta. 

Molti avrebbero diritto alla protezione internazionale perché arrivano da Paesi dove sono discriminati, come i curdi in Turchia o gli azara in Afghanistan, ma le pratiche vanno a rilento. L’incapacità dello Stato e della Regione di gestire il fenomeno, si traduce in burocrazia infinita. Chi è in attesa di protezione, viene ospitato nell’ex campo scout in località Campo Sacro, una struttura pensata per cento persone, ma che spesso è piena tre volte tanto la sua naturale capienza, così altri migranti vivono nelle tende attorno, e altri dormono fuori. Perché da luglio 2022 i trasferimenti sono più lenti: un’ottantina sono gli arrivi di media al giorno, mentre vengono trasferite circa ottanta persone a settimana. È come asciugare l’acqua del mare con un secchiello. La motivazione ufficiale è mancanza di posti nel sistema nazionale. Fatto sta che, mentre funziona discretamente l’accoglienza territoriale, grazie ai 160 appartamenti diffusi in tutte le zone della città, è nell’impasse la prima accoglienza che si basa sul turn over veloce. Pertanto, i numeri dei migranti salgono velocemente e la situazione diventa spesso esplosiva. Ma qualcuno ce la fa. Il 3 febbraio quattro ragazzi arrivati a Gorizia sono stati mandati a Verona. Per loro si aprirà l’iter per la richiesta di asilo. Ma sono numeri esigui rispetto alle richieste che nel 60% dei casi vengono respinte. I ragazzi riaccompagnati alla frontiera perdono tutte le loro speranze.

Per fortuna c’è Lorena. Per fortuna c’è la piazza, luogo di incontro dove, per esorcizzare la paura, o forse semplicemente perché sono ragazzi, si balla e si gioca a pallone. Intanto arrivano tè caldo e pentoloni di riso. Si mangia, si chiacchiera, si attende.

I triestini stanno fuori dalla piazza. Tutto questo non scalfisce la loro quotidianità, sbirciano da lontano, transitano da un lato all’altro, pochissimi si fermano a chiedere. Per la maggior parte della gente, questi ragazzi non sono nomi, né volti, né storie, sono solo clandestini. La polizia ogni tanto circonda la piazza, ma lascia fare. «Ci tollerano – dice Lorena -, perché così facendo, copriamo una lacuna, facciamo quello che nessuno fa. Siamo funzionali alle Istituzioni».

Collegato all’attività in piazza, c’è il centro diurno di via Udine, con ambulatorio medico e una ventina di posti letto. E’ gestito dalla rete “Frontiera della solidarietà”, di cui Linea d’ombra fa parte assieme a Ics, Consorzio italiano di solidarietà (che gestisce l’accoglienza in Friuli per conto della Prefettura), Irc, International Rescue Committee, Diaconia Valdese, la comunità di San Martino al Campo, Donk Humanitarian Medicine, ASCS, Agenzia Scalabriniana per la cooperazione allo sviluppo. 

«Indietro non si torna. La nostra vita è sconvolta – conclude Lorena, la cui casa è diventata un magazzino di smistamento -. Ma come si fa a dimenticare i morti? Come si fa a dimenticare le piaghe delle torture? Come si fa a dimenticare Oussama, 27 anni, algerino, morto precipitando in una buca di dolina mentre scappava dai guardiani di confine tra Bosnia e Croazia? E magari in quella stessa Croazia andare al mare?».

*Romina Gobbo, vicedirettore Verbum Press

Romina Gobbo