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Fenomenologia del tatuaggio

La modernità è la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza

In quanto sociologo sono già da diversi anni interessato al fenomeno del tatuaggio, soprattutto per approfondire quanto sta avvenendo da una cinquantina di anni a questa parte, almeno in Italia. Questa pratica si è trasformata molto diffusamente in un’invasione colorata, fino ad arrivare in certi casi ad un’espressione artistica notevole ed accreditata.

Nel 1998, il Ministero della Sanità, registrando, finalmente, il fenomeno come importante, istituì dei Corsi professionali obbligatori di 90 ore, attivati nel Lazio nel settembre 1998. L’istituzione di questi corsi aveva lo scopo di sanare una situazione “di fatto” e legalizzare l’esistenza di una figura professionale, quella del tatuatore, perfettamente attiva da decenni nel tessuto sociale. La prima indagine in Italia, pubblicata sul web dall’Istituto Superiore di Sanità, risale al settembre 2015 e denunciava che in Italia, a farsi scrivere o dipingere indelebilmente sulla propria pelle, erano ormai quasi sette milioni di persone, il 12,8% della popolazione. Tra i tatuati le donne rappresentavano il 13,8% della popolazione femminile, mentre gli uomini erano l’11,7%. Inutile dire che oggi quelle percentuali sono sensibilmente aumentate. Già nel maggio del 2016 avevo partecipato a Roma, invitato dalla collega giornalista Carla Guidi e da Valter Sambucini, valente fotografo, ad un convegno sul tema e, ascoltando le varie relazioni, avevo capito l’importanza del fenomeno praticato fin dalla preistoria. Questa usanza potrebbe rappresentare oggi, come scriveva Carla Guidi citando vari autori, non solo un disagio, una ricerca di identità e di rapporto non effimero con la realtà del corpo, ma anche una reazione ad una modalità sempre più incerta di stare al mondo, una reazione all’oppressione di un’invadente tecnologia. Da sociologo non posso non citare Zygmunt Bauman, che ha insegnato per molti anni in Inghilterra, scomparso nel 2017; egli è conosciuto come teorico della cosiddetta “società liquida”: «La modernità è la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza»; concetto ripetuto nella sua produzione scientifica: la nostra vita è ormai “liquida”, i nostri amori, il lavoro, la famiglia, l’intero tessuto della società di oggi, sociale e politico, sono “liquidi”, e perciò sfuggenti e inafferrabili. 

Lo spaesamento dell’uomo medio, dovuto alla precarietà del lavoro, della famiglia e di tutto ciò che lo circonda, ai repentini cambiamenti, alla cruda realtà della società contemporanea è, purtroppo, un dato di fatto; in questi ultimi anni, la “Pandemia” globale e i conflitti nel mondo e soprattutto in Europa, stanno sconcertando gli esseri umani che pensavano (vedi “Boom” economico, anni ’60 del Novecento) di vivere in condizioni migliori rispetto ai loro genitori, di raggiungere una vita serena e con sempre meno problemi, auspicando una pace a livello mondiale, con una tangibile diminuzione delle sacche di povertà in tutti i continenti, sotto il controllo di benemeriti organismi internazionali sempre più diffusi e importanti. 

Gli scritti di Bauman ci ricordano che in questo clima da villaggio globale (locuzione usata per la prima volta da Marshall McLuhan), i concetti di migrazione e progresso sono sempre stati collegati tra loro, poiché i processi di modernizzazione, l’uso delle macchine, hanno sempre fatto scaturire una sovrabbondanza di essere umani, una quota superflua che per lo più colpisce i più deboli, chi è di diversa religione e colore della pelle, chi è fuori dagli schemi e non riesce a rispettare certi parametri. Tutto ciò a scapito della creatività di chi, a prima vista, può sembrare diverso. Ma è dalle diversità che scaturisce il progresso dell’uomo. Non voglio mancare di citare il mio maestro, il sociologo italiano per eccellenza, Franco Ferrarotti che, a proposito di omologazione, intitolava un suo libro del 2012: «Un popolo di frenetici informatissimi idioti». Titolo che dà l’idea del contenuto del lavoro (il termine “idioti” del titolo non è un insulto gratuito; è da intendersi nel senso etimologico di “circoscritti”, “localizzati”, “irretiti”, “prigionieri nel web”). 

Oggi, con la rivoluzione digitale, la società è sempre più caotica e muta costantemente in modo vertiginoso; il lavoro manuale viene sempre più svalutato, mentre si danneggia il capitale individuale, sia quello concreto di beni materiali e ambientali, sia soprattutto quello spirituale, di esperienze, di abilità, di cultura, sempre più impoverito. Uno sviluppo economico deforme spinge a produrre quello che si produceva ieri, ma spendendo di meno ed usando meno personale; inoltre, in questa “società liquida”, tutto è così rapido ed incerto che può accadere qualsiasi cosa, in ogni momento, ma nulla si riesce a tamponare a propria difesa, poiché il tempo è così accelerato che non c’è modo di metabolizzare le esperienze, di riflettere, di costruire. C’è chi vuole attribuire la responsabilità di questa incertezza agli immigrati, quelle persone che incontriamo per la strada e sulle quali scarichiamo i nostri disagi, non potendo prendercela con gli inaccessibili e inarrivabili burattinai, programmatori del “grande ignoto” che avanza, questi sono tra noi ma invisibili, e anche se potessimo vederli in volto, non potremmo mai toccarli o poter influire su di loro, esseri eterei, irraggiungibili molto più del “Megadirettore Galattico”, personaggio creato dal compianto Paolo Villaggio: il rag. Fantozzi, uomo medio e mediocre per eccellenza. 

Di questi tempi ormai diminuisce sempre più il tempo di attenzione davanti a uno schermo quando siamo al lavoro, ma anche quando ci rilassiamo, con l’abitudine o l’obbligo di saltare continuamente da una chat a una foto, su di un post, da un link all’altro, da una mail all’altra; ciò continua poi nella vita privata, spesso anche di notte. Ma poiché non siamo all’altezza di fare bene due cose contemporaneamente, perlomeno noi maschietti, a detta delle componenti dell’altra metà del cielo (espressione resa nota da Mao Tse-tung), la nostra capacità di comprendere, di ragionare, di memorizzare viene tirata qua e là; per concentrarci su di una cosa abbiamo bisogno di tempi sempre più lunghi che spesso non possiamo permetterci. Nel frattempo però il nostro cervello comincia ad adattarsi a saltare da un abbozzo di pensiero all’altro, seguendo un’attenzione sempre più effimera, come affermano i neuro scienziati, mentre proprio questa attenzione è l’oggetto del vero business dei giganti del web, che riescono a venderci di tutto con questo sistema: prodotti, stili di vita, proposte politiche. In questo mondo, ormai iperconnesso, in cui girano ogni giorno più di 200 miliardi di e-mail e un centinaio di miliardi di messaggi WhatsApp, dobbiamo ritrovare il modo per tornare ad ascoltarci. Abbiamo centinaia, migliaia di amici nel Web: «E poi dormiamo coi cani; Ti sei accorta anche tu, che siamo tutti più soli?» (da un significativo brano musicale di Cesare Cremonini).

Non sorprende quindi che la particolare attenzione rivolta al proprio corpo, liberato dopo la mondiale rivoluzione di costumi degli anni Sessanta del secolo scorso. Inoltre, come sanno bene gli artisti-tatuatori, le persone si rivolgono a loro per avere consigli estetici, oltre che per comprare, solo per sé stessi, opere d’arte permanenti, che non possono essere alienate quindi ma che vanno a modificare ed in qualche modo stabilizzare, l’identità della persona, messa a dura prova dall’incertezza del presente. Quello di mostrare dei tatuaggi sul proprio corpo risulta in ogni caso un tentativo di personalizzazione, atto ad uscire dagli standard e contrastare l’omologazione “orwelliana” tanto temuta da chi si sente un artista, un essere diverso dagli altri, se non migliore, pronto a dimostrare la sua peculiarità, contribuendo in questo modo a colorare il mondo. 

L’interessamento all’arte del tatuaggio mi ha dato, alcuni anni fa, l’opportunità di conoscere uno dei più bravi tatuatori italiani, Marco Manzo, conosciuto a livello internazionale anche come pittore e scultore. Manzo, che ha uno studio a Roma, si distingue per la passione con la quale rispetta il corpo e la sua anatomia, sottolineando (con un impegno pluridecennale) con eleganti e raffinati ricami, la peculiarità e la bellezza di ogni singola persona, in particolare il corpo femminile di attrici e modelle; l’artista ha partecipato negli anni a numerose mostre in vari musei e per alcune è stato direttore artistico.

In conclusione, a proposito delle nuove forme d’arte e dello scetticismo che è sempre dominante da parte di certi critici tradizionalisti, Umberto Eco ha così scritto: «Ho visto in vita mia murales splendidi e murales bruttissimi, come accade per ogni forma d’arte», ciò, in definitiva, vale anche per i tatuaggi.

Bibliografia e sitografia

Zygmunt Bauman, “Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi”, Laterza. 

Zygmunt Bauman, Modernità liquida”, Laterza.

Cesare Cremonini, https://it.m.wikipedia.org>cesare_cremonini, brano: “Nessuno vuole essere Robin”

Umberto Eco, “La Bustina di Minerva” RCS Libri.

Franco Ferrarotti, “Un popolo di frenetici informatissimi idioti”, Solfanelli. 

Carla Guidi, “Estetica anestetica. Il corpo, l’estetica e l’immaginario nell’Italia del Boom economico e verso gli anni di Piombo”, Robin editore. 

Carla Guidi, “Città reali, città immaginarie”, Robin editore (con contributi di Franco Ferrarotti, Valter Sambucini, Pietro Zocconali). 

Marshall McLuhan, “Guerra e pace nel Villaggio Globale”, Apogeo.

George Orwell, “1984”, Mondadori.

Paolo Villaggio, “Fantozzi” (con diversi sequel e diversi film culto), Einaudi.

*Pietro Zocconali, giornalista, presidente Associazione Nazionale Sociologi

Pietro Zocconali