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LoveGiver: l’operatore all’emotività, affettività e sessualità O.E.A.S.

Intervista a Max Ulivieri, curatore e ideatore del progetto sulla disabilità LoveGiver

La prima volta che ho sentito parlare Max Ulivieri a Bologna ho pensato di essere a uno spettacolo di stand up comedy. E invece, ero a un Festival sulla sensibilizzazione delle disabilità e delle diversità in genere. Il suo modo di fare ironico, la semplicità e leggerezza con cui parla della disabilità mi hanno incuriosito, coinvolgendomi così in un universo parallelo, fatto di idee coinvolgenti e progetti visionari. Toscano di nascita e Bolognese per scelta, Maxi si occupa di turismo accessibile, sia come formatore che tramite il progetto diversamenteagibile.it. È promotore di battaglie per i diritti delle persone con disabilità, legate in particolare ai temi dell’affettività e sessualità, per i quali ha fondato ed è presidente del progetto lovegiver.it. Oggi lo intervisto, senza filtri né barriere, un po’ com’è lui.

Il progetto LoveGiver prevede che la persona disabile entri in contatto con l’O.E.A.S. (operatore all’emotività, affettività e sessualità). Molte persone però, forse facendosi fuorviare dalla loro fervida immaginazione e da frivoli titoli di giornali, pensando a questa figura e alla sua funzione, si soffermano solo sulla sfera sessuale riguardante l’operatore e il disabile. 

Che cosa è in realtà l’O.E.A.S. e perché è così importante? Per spiegare al meglio chi sia e come operi e perché è importante l’O.E.A.S. riporto la presentazione pubblicata sul nostro sito:

L’assistenza alla sessualità a persone con Disabilità rappresenta un concetto che racchiude allo stesso tempo “rispetto” e “educazione”, che solo per un paese civile può rappresentare la massima espressione del “diritto alla salute e al benessere psicofisico e sessuale”.

Per questo motivo parlare semplicemente di Assistenza Sessuale può risultare estremamente riduttivo, qualificarne il concetto più complesso attraverso i termini: assistenza all’emotività, all’affettività e alla sessualità (definito O.E.A.S. dove “o” sta per operatore) permette di assaporare tutte quelle sfumature in essa contenute.

L’assistenza all’emotività, all’affettività e alla sessualità si caratterizza con la libertà di scelta da parte degli esseri umani di vivere e condividere la propria esperienza erotico-sessuale a prescindere dalle difficoltà riscontrate nell’esperienza di vita.

L’O.E.A.S. è un operatore professionale (uomo o donna) con orientamento bisessuale, eterosessuale o omosessuale che deve avere delle caratteristiche psicofisiche e sessuali “sane” (importanza di una selezione accurata degli aspiranti O.E.A.S.).

Attraverso la sua professionalità supporta le persone con disabilità a sperimentare l’erotismo e la sessualità. Questo operatore, formato da un punto di vista teorico e psico-corporeo sui temi della sessualità, permette di aiutare le persone con disabilità fisico-motoria e/o psichico/cognitiva a vivere un’esperienza erotica, sensuale e/o sessuale. Gli incontri, infatti, si orientano in un continuum che va dal semplice massaggio o contatto fisico, al corpo a corpo, sperimentando il contatto e l’esperienza sensoriale, dando suggerimenti fondamentali sull’attività auto-erotica, fino a stimolare e a fare sperimentare il piacere sessuale dell’esperienza orgasmica.

L’operatore definito del “benessere sessuale” ha dunque una preparazione adeguata e qualificante e non concentrerà esclusivamente l’attenzione sul semplice processo “meccanico” sessualità. Promuoverà attentamente anche l’educazione sessuo-affettiva, indirizzando al meglio le “energie” intrappolate all’interno del corpo della persona con disabilità.

Uno degli obiettivi è abbattere lo stereotipo che continua a essere ingombrante e che vede le persone con difficoltà e disabilità assoggettate all’“asessualità”, o comunque non idonee a vivere e sperimentare la sessualità. Importanza del superamento del concetto del “sesso degli angeli”.

L’O.E.A.S. in base alla propria formazione, sensibilità e disponibilità può contribuire a far ri-scoprire tre dimensioni dell’educazione sessuale:

Ludica: scoprire il proprio corpo.

Relazionale: scoprire il corpo dell’altro.

Etica: scoprire il valore della corporeità.

Ed al tempo stesso, aiutare il soggetto con disabilità a rendersi protagonista maggiormente responsabile delle proprie relazioni sia sentimentali che sessuali, favorendo una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé ed una più adeguata capacità di prendersi cura del proprio corpo e della propria persona. La mancanza di autostima è uno dei freni per un naturale approccio verso l’altro sesso. L’O.E.A.S. può aiutare ad accogliere e non reprimere le diverse istanze del proprio corpo, dei sensi e delle emozioni.

Secondo te in Italia, al di là delle persone che possono avere sindromi o difficoltà motorie, c’è un gap nei confronti dell’accettazione dei corpi in quanto tali? Perché parlare di corpi e corporeità spaventa così tanto?

Se le persone con disabilità hanno spesso difficoltà a vivere la propria sessualità e trovare relazioni, è proprio perché c’è una difficoltà comune su questi temi. In realtà si vive un paradosso nel nostro Paese, non è che la sessualità non sia del tutto vissuta o vissuta solo nei canoni. Esistono pratiche e locali di ogni genere. Tipo locali dove si pratica BDSM o locali di scambisti. Ambienti dove si vive il bondage. Ci sono manager che di giorno se ne stanno in giacca e cravatta a comandare nelle aziende e magari di notte li trovi in locali messi a quattro zampe in perizoma a farsi frustare da una mistress vestita in lattice. Questo per dire che la sessualità è vissuta anche nelle sue perversioni e non c’è nulla di male (sempre nel consenso reciproco) ma poi ce ne vergogniamo a parlarne pubblicamente o semplicemente abbiamo timore dei commenti giudicanti. Del resto, si viene giudicati pure per come vestiamo. Credo che tutto ciò che ci spaventa sia semplicemente ciò che non conosciamo bene e soprattutto non siamo abituati a vedere. Per fortuna da qualche anno sui social ci sono attivisti/e che hanno iniziato in maniera semplice, anche divertente, a parlare di sessualità nelle sue innumerevoli sfumature e questo aiuta a rendere più “amichevole” ciò che è sempre sembrato un “nemico”.  

Proprio dal momento che parlare di corpo crea difficoltà si tende a utilizzare termini aulici e in disuso per rendere tutto esteticamente più bello. Molto spesso questo meccanismo avviene anche quando ci si riferisce persone con disabilità. Quali sono le parole “tossiche” che dobbiamo smettere di usare quando ci riferiamo alla disabilità? Qual è il vocabolario che possiamo utilizzare per rendere tutto un po’ più vero e meno evanescente?

Il primo punto fondamentale: la disabilità non è una malattia, bensì una “condizione” che può essere momentanea o duratura nella quale non riusciamo a fare qualcosa, superabile però se mettessimo a disposizione gli strumenti giusti (una carrozzina, un computer, un ascensore, un servizio di assistenza…). Per questo motivo sono assolutamente bandite tutte quelle parole (o figure) che rimandano a un concetto di disabilità: sofferenza e dolore, impedimento o costrizione, incapacità.

Quindi, è sbagliato dire affetto da… o malato di… o soffre di… (la disabilità non è una malattia ma una condizione che dipende soprattutto dall’interazione con l’ambiente);

È corretto invece dire: con (disabilità, sindrome di…). Una persona con disabilità/Una persona cieca o sorda (la persona viene prima di tutto, mentre la disabilità è una caratteristica della persona, non una malattia).

Per fortuna termini come menomato o handicappato non si usano più. È pure scorretto utilizzare termini come costretto in riferimento allo stare in sedia a rotelle. La carrozzina è uno strumento di aiuto, ti dona libertà e indipendenza. 

Anche la negazione “non” davanti qualcosa è scorretto. Ad esempio, la stessa comunità dei sordi si dichiara “sorda” anziché “non-udente”, così come i ciechi si auto definiscono “ciechi” anziché “non-vedenti”. Sarebbe altrimenti come definire me non deambulante. Suona malissimo.

Insomma, evitiamo il politically correct che ci costringe a utilizzare termini per cercare di essere “delicati” verso chi ha delle disabilità e si ha il risultato opposto.

Nel tuo Tedtalk del 2018 hai parlato di come ci fossero ancora molte difficoltà nella rappresentazione mediatica dei disabili come, ad esempio, in una pubblicità di un dentifricio. Ad oggi, ti chiedo, ti sembra che dal punto di vista dei media qualcosa è cambiato o con il boom dei social soprattutto per quanto riguarda Instagram, si stia andando sempre di più verso l’idea di perfezione estetica?

A livello di media come TV qualcosa si è iniziato a sdoganare. Ad esempio, ci sono pubblicità con coppie omosessuali. Mentre per la disabilitò, a parte campioni e campionesse di sport, non si vede cambiamenti. Le persone con disabilità le vedi in TV solo a raccogliere fondi per la ricerca. Al Tedx ho provocato dicendo perché per uno spot di un dentifricio ci dev’essere una ragazza con un bel sedere? Ci potrebbe essere chiunque. Eppure, anche in certi spot deve rimanere lo stereotipo di bellezza a cui siamo abituati. Ecco, è l’abitudine alla diversificazione dei corpi. L’occhio umano dev’essere allenato altrimenti si focalizza solo su un certo tipo d’immagine. Anche il cinema dovrebbe aiutare di più in questo, se pur da qualche anno si sono visti film sulla disabilità ma spesso con attori non disabili. Comunque io avevo mandato un’idea di spot a una nota marca di orologi ma non mi hanno risposto. Peccato, era uno spot fichissimo. 

Chiuderei con una nota di dolcezza. Durante la pandemia sei diventato papà della piccola Sophie e, come succede a ogni neogenitore, il tuo mondo è cambiato. Qual è l’insegnamento più grande che puoi dare a tua figlia e quale mondo speri che possa trovare in un futuro prossimo? 

Direi che uno degli insegnamenti più grandi ce l’ha già in carne e ossa, più ossa che carne, ed è crescere abituata alla diversità del papà. È questo che intendo per abitudine. A volte capita vengono a trovarla delle compagne o compagni di asilo e loro non si sentono a proprio agio con me, soprattutto inizialmente. Ci vuole tempo. A volte anche molto tempo. Si dovrebbe avere più occasioni per mescolare le diversità. Questo renderebbe tutti uguali nelle loro diversità. In più direi che è mia figlia che insegna agli altri. Anche a me, mi spinge a superare ostacoli, ad avere più fantasia, pazienza, forza. Alle persone insegna che un papà o una mamma lo sono ugualmente anche se su ruote. Sophie è la parte perfetta di me. Ho due donne fantastiche anche se ora mi comandano in due. 

La vita mi ha dato molto più di quanto mi ha tolto.

*Arianna Di Biase, giornalista

Arianna Di Biase