VerbumPress

La scoperta dei valori di giustizia e verità, di là dal proprio tornaconto, ne Il mistero della zingara (Edisud Salerno, 2022)

Intervista con Antonio Valitutti, presidente della prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione e autore del romanzo dall’alto contenuto etico

Giustizia, verità, amore, cultura. Sono i pilastri irrinunciabili – che spesso si intersecano e si correlano fra loro – di una persona nel suo insieme, votata ad agire per il bene comune. E sono i principi sottesi, neanche tanto, al romanzo “Il mistero della zingara” un thriller avvincente e di ampio respiro, attraverso cui l’Autore ha inteso veicolare le sue idee-forza, i suoi valori e le sue riflessioni su grandi temi.

Si tratta dell’esordio narrativo del giudice Antonio Valitutti – presidente della prima sezione civile della Corte Suprema di Cassazione e già autore di pubblicazioni giuridiche, poesie e testi musicali – scritto con consumata abilità e con ritmo serrato tali da agganciare il lettore fin dalla prima pagina e tenerlo ben saldo fino all’epilogo.

Scorrendo le oltre duecento pagine del libro, rapiti dalla musicalità della scrittura, traspaiono i due aspetti fondamentali del magistrato-scrittore, quello della giustizia e quello artistico-culturale. Di seguito la nostra intervista per conoscere meglio l’Autore e il suo incredibile lavoro.

Luca Pogliani, un avvocato che esercita a Milano, è originario di una “piccola città del sud”, dove ritorna perché è stato commesso un efferato delitto, anche se «Quello che in prima battuta sembrava essere un delitto di provincia, un omicidio passionale, si è rivelato qualcosa di molto più complesso, che potrebbe assumere perfino una dimensione nazionale» (p. 201)

Una complessità che il lettore del suo incalzante e imprevedibile legal thriller ritrova non solo nella trama ma anche nelle varie “angolature” che riesce a cogliere nel romanzo, dalla funzione fondamentale dell’avvocatura ai continui riferimenti culturali.

Anzitutto, soffermiamoci sulla cittadina di provincia – «Una cosa era certa. Quella piccola città di provincia era malata, e gravemente», p. 79 – che presenta tanti lati oscuri, ma che il protagonista sembra amare e voler preservare (basti pensare anche all’omaggio al dialetto, spesso presente nei dialoghi). È più un rapporto di odio o di amore? E per quali motivi decide di tornarvi? Il protagonista ‒ come, del resto, lo stesso autore ‒ ama ed odia la sua cittadina. La ama perché vi è nato, ha lì la grande casa familiare, le sue radici, i suoi amici, i suoi ricordi. La odia perché la provincia sa essere crudele e spietata anche più della grande città. Il protagonista menziona, al riguardo, «i fiori del male», citando Baudelaire e De André («non tutti nella capitale spuntano i fiori del male»). Ma sa che la piccola comunità attende un nuovo tempo, una sorta di palingenesi che spazzi via tutto ciò che vi è di negativo. E lui non può sottrarsi a questo compito. Ci torna perché lo chiama la sua ansia di giustizia e di verità, il rispetto dell’amicizia per i due compagni di infanzia (presunto assassino e vittima) ingiustamente coinvolti in una sordida vicenda. E poi, la nostalgia (nostos-algos, dolore del ritorno), per la città, la casa, i legami affettivi, la terra. 

«Tu attroverai fama ed onori in un mondo diverso, in un mondo nuovo! […] inta ‘a natu munno» gli aveva predetto la zingara all’età di diciotto anni. È necessario scardinare mentalità e comportamenti sbagliati, addirittura criminali, per il rinnovamento sia di un luogo sia delle persone? Appunto, la palingenesi inizia con il mutamento che deve avvenire dentro ciascuno di noi. «Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi» (Proust). Saper guardare ad una realtà consueta con occhi diversi, distruggendo dentro di noi pregiudizi, rancori, meschinità, propensione alla maldicenza. E, purtroppo, come il protagonista scoprirà, a volte occorre perfino distruggere i mostri che il «sonno della ragione» genera (Goya).

«Ho scelto questa professione per tutelare, a tutto campo, la dignità degli uomini, la loro libertà, l’eguaglianza davanti alla legge».

Colpisce la dirittura morale dell’avvocato – e quindi anche l’impegno etico del narratore –  intessuta, annodata, percorsa dal fil rouge della giustizia e della responsabilità delle azioni compiute: «Io credo che il nostro lavoro debba essere svolto nell’interesse della giustizia, a favore di chiunque ne abbia bisogno, perfino se non sia in grado di pagarci, e contro chiunque prevarichi gli altri, anche il personaggio più potente che ci sia. La tua idea che nella società vi siano persone che possano essere considerate “marginali’ la trovo, aberrante ed indegna di un vero difensore» (p. 105)

In alcuni passaggi si ha l’impressione che l’intento del libro sia più che altro da ricercare nella precipua volontà di farsi interprete dei valori della giustizia, del rigore morale, della «ricerca della verità». È così?

In questo senso, inoltre, viene in mente anche al ruolo del giornalista: anche per questa figura professionale «a vincere deve essere sempre e soltanto la verità», oltre che il rispetto della deontologia. Che ne pensa? Ha colto perfettamente il cuore del libro. La scoperta dei valori, di là dal proprio tornaconto, dalle piccolezze e dalle miserie del vivere quotidiano sfruttando gli altri, insomma dell’orizzonte che si ferma al tetto, per aprirsi invece ‒ come il quadro della giudice che disegna un percorso che dal promontorio sbocca sul mare aperto ‒ alla scoperta della cultura (le vestigia del passato neglette dalla piccola comunità), alla solidarietà, al bene. Ma per trovarlo bisogna aprire il cuore, quel cuore che è uno spettacolo più grande del cielo e del mare (Hugo). 

Il testo è intriso di citazioni culturali, richiami all’arte, alla letteratura (Balzac, Beckett, Proust, Baudelaire, ecc.), alla musica: d’altronde lei è un musicista appassionato (è anche autore di due studi per chitarra classica), oltre che grande lettore e autore di poesie e soprattutto di numerosi e autorevoli saggi giuridici. Non solo: dalla teoria dei colori di Kandinskij a quella di Goethe, il suo “giallo” si avvale di un gioco cromatico che affascina chi legge, indeciso se per lei, in definitiva, sia più importante il rosso (come lo scialle di Miriam con cui conclude la storia) o forse il bianco, «colore primario, il colore della luce, […] il colore della purezza e dell’innocenza. Alla fine, sarà il bianco a trionfare» (p. 47); se non addirittura l’azzurro della “Donna celeste” che compare nella dedica… Il rosso è il colore decisivo, il colore del cuore, dell’amore, del calore umano, del sangue vivo e palpitante, della passione. È l’amore per gli altri che spinge alla giustizia ‒ che è amore ‒ a ricercare l’innocenza e a tutelarla (il bianco), a guardare in alto verso cieli azzurri e purissimi (il celeste), alla ricerca della pulizia morale, a garantire la speranza di un avvenire migliore (il verde).

Le pagine di questo giallo d’azione, ricco di suspence e colpi di scena (l’ultimo lo ritroviamo appena dieci pagine prima della conclusione!), sembrano pellicole di un film magistralmente girato da lei, sempre attento alle descrizioni, ai dettagli, alle sfumature, senza mai abbandonare il suo stile pulito che regala agilità e sorrevolezza alla storia.

L’eccellente intreccio di immagini e parola si presta a poter diventare un soggetto cinematografico o uno sceneggiato televisivo e a poter raggiungere, dunque, un pubblico più largo, anche a livello internazionale.

Le piacerebbe, visto che sarebbe un altro modo per poter diffondere la sua “missione” etica, per poter veicolare temi alti a lei così cari? Grazie per quella locuzione «missione etica». È proprio così. Tutta la mia vita, tutta intera, di magistrato, docente, conferenziere, scrittore, musicista è stata tutta rivolta alla ricerca del bello, che è anche il buono, del giusto, del ben pensare (Pascal). La diffusione del contenuto etico di questo libro non risponde ad una mia vanitosa ricerca di pubblicità (non ho bisogno di vetrine, sono già molto noto, e considero l’umiltà un valore da preservare sempre), ma ‒ come ha bene intuito ‒ alla volontà di far circolare il messaggio morale che cerco di diffondere. Certo mi piacerebbe una versione cinematografica o televisiva, tanto, ma bisogna conoscere, avere conoscenze che io non ho. 

Si può dire che è un romanzo d’amore, di memoria, di speranza? Tutte e tre le cose. Soprattutto di speranza, che è ossigeno della storia, che il protagonista dona a quella piccola comunità del Sud. 

Dopo la prima presentazione a Roma, ce ne sono in programma altre? Dipende anche dalla casa editrice. Credo di sì, dato il successo che il romanzo sta avendo, ma dovremo pensare ad una ristampa. Grazie a Dio è andato a ruba.  

*Mary Attento, giornalista

Mary Attento