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Il James Webb Telescope ha aperto gli occhi… E sono magia e futuro!

La nostra Terra è un pianeta e in quanto pianeta fa parte dell’Universo che studiamo. Sembra un concetto banale eppure non lo è, soprattutto quando troppo spesso c’è chi si chiede a cosa servano astrofisica e ricerca spaziale. Eppure da loro nascono internet, le tute per i pompieri, le gomme più resistenti per gli pneumatici, le pinze elettriche per la neurochirurgia e potrei riempire l’intera rivista andando avanti. Faccio questa premessa perché questo articolo è dedicato al James Webb Telescope (JWT, NASA-ESA) e alle sue meravigliose prime immagini mostrate dalla NASA il 12 luglio scorso ed è chiaro che di primo acchito non sembri avere nulla a che fare con i problemi del nostro pianeta. Invece, anche un oggetto nato per osservare l’universo più lontano può contribuire alla sua cura.

Rendering della NASA di com’è fatto il James Webb Telescope.

A parte l’effetto “WOW” immediato che le immagini hanno creato a chiunque sia un minimo sensibile alla bellezza, sono certa che capire cosa stiamo guardando, quale strumento incredibile abbiamo costruito per averle e perché sia così importante averlo costruito, possa arricchire ancora di più il vostro “WOW”. Il caro e vecchio telescopio HUBBLE (NASA-ESA) è uno splendido oggetto portato in orbita dallo Space Shuttle Discovery (missione STS-31) nell’aprile del 1990. Il suo nome è dedicato allo scienziato statunitense Edwin Powell Hubble, famoso per la legge che descrive l’espansione dell’universo, e ancora oggi continua a mandarci immagini strepitose. Già l’anno prima del suo lancio, però, il JWT iniziava a prendere forma; prima di tutto perché dall’idea di uno strumento astrofisico/spaziale fino alla sua “prima luce” passano solitamente decenni e poi la forza più grande della scienza, tutta, è essere sempre passi avanti rispetto alla normalità per permettere alla normalità di esistere nel mondo migliore possibile. Non dimentichiamocelo. Tornando a noi, da quell’idea iniziale il 25 dicembre 2021 si è arrivati al lancio del JWT, chiamato così in onore di James Webb, funzionario statunitense e secondo amministratore della NASA, colui che ha diretto il progetto APOLLO. JWT è stato lanciato non da Cape Canaveral come HUBBLE ma dalla base Europea di Kourou, in Guyana francese, col razzo europeo Arian V. La scelta della base di lancio per uno strumento scientifico dipende dal punto di arrivo: non ho spazio per andare nel dettaglio ma questo ci introduce alla prima differenza tra JWT e HUBBLE. HUBBLE è “qui dietro”, a 570 km di quota, cosa che ha permesso di sistemare, per esempio, un problema di miopia del suo specchio tramite la missione STS-61 (Shuttle Endeavour) nel 1993, senza la quale non avremmo visto che luci sfocate. JWT, invece, dopo circa un mese di viaggio è arrivato nel punto L2, a 1 milione e mezzo di km da noi! Il che ha reso l’eventualità di problemi decisamente più temibile. L2 è il secondo dei 5 punti di equilibrio Lagrangiani (perché l’ha scoperti il matematico Lagrange…consueta fantasia astrofisica) nel sistema Terra-Sole: sono dei punti in cui si può collocare un terzo corpo (un telescopio) con una massa molto più piccola degli altri due (Terra e Sole) e farlo stare in perfetto equilibrio tra gravità e forza centrifuga. L2 è uno dei punti d’equilibrio più lontani da noi e sta in direzione opposta al Sole, in modo che JWT non avrà mai né Sole né Terra a “dargli fastidio”, e manterrà sempre la stessa posizione rispetto la Terra, rendendo le comunicazioni molto più semplici. In realtà, non è fisso su L2 ma gli orbita intorno in modo tale da limitare il più possibile l’esposizione alla luce di Terra, Luna e Sole. Tutto questo, ricordiamolo, è stato calcolato prima di lanciarlo. 

Webb’s first Deep Field visto dalla MIRcam (quindi medio infrarosso, sinistra) e dalla NIRcam (quindi vicino infrarosso, destra) montate sul JWT.

Come calcolata nei minimi dettagli è stata tutta la procedura preparatoria automatica nei successivi 5 mesi dall’arrivo in L2: il raggiungimento dell’orbita, l’apertura dello schermo solare, la corretta collocazione dello specchio secondario e l’apertura e la messa a fuoco di tutti i segmenti che costituiscono lo specchio primario (la missione sarebbe potuta fallire in ben 344 modi diversi, esatti!). Qui arriviamo alla seconda grande differenza con HUBBLE: il nostro vecchio amico ha uno specchio unico col diametro di 2,4 metri mentre JWT ha uno specchio di 6,5 m costituito da 18 segmenti esagonali. Questa tecnologia, ideata dall’italiano Guido Horn D’Arturo, permette una maggiore stabilità e una maggiore possibilità di correzione. Questo specchio raccoglie un quantitativo di luce impressionante, permettendo di osservare oggetti deboli e lontanissimi. Ed eccoci alla terza differenza principale con HUBBLE.

JWT lavora nella banda infrarossa (IR), cioè a energie più basse rispetto alla banda ottica di HUBBLE. Perché questa scelta? La luce ottica degli oggetti che sono nati agli albori del nostro universo, circa 13,7 miliardi di anni fa, subisce gli effetti del cosiddetto “redshift cosmologico”: l’espansione del nostro universo comporta che si “espanda” anche la lunghezza d’onda della luce. Questo implica che se la luce emessa è nel visibile, l’“espandersi” della sua lunghezza d’onda diminuisce la sua frequenza (onde più grandi sono più rade) e quindi la sua energia: perciò quando arriva a noi è nell’ IR. Quello che vuole fare JWT è darci informazioni su oggetti che hanno l’età del nostro universo, che non potremmo osservare in nessun altro modo se non questo. Bene, spero di aver già aumentato l’effetto “WOW” di cui abbiamo parlato all’inizio ma a questo punto capiamo meglio le prime immagini che JWT ci ha regalato, dimostrando nel contempo che nessuno di quei 344 modi di fallire ha avuto la meglio (non male no?). 

Lo spettro dell’esopianeta WASP 96-b misurato dal JWT

La prima ci mostra il “Webb’s Deep Field”, campo profondo del Webb: un pezzo di universo grande come un granello di sabbia, messo alla distanza di un braccio dai nostri occhi, pieno di migliaia e migliaia di Galassie. Queste appartengono all’ammasso di Galassie SMACS 0723 che si trova a circa 4,6 miliardi di anni luce da noi (il nostro Sole è a “soli” 8 minuti luce da noi), il che significa che la luce che stiamo osservando è stata emessa 4,6 miliardi di anni fa, mentre la nostra Terra e il nostro Sistema Solare si stavano formando. Le due immagini sono dello stesso pezzo di universo ma prese da due strumenti diversi: quella di sinistra è del Mid-Infrared Instrument (MIRI), specializzato nelle lunghezze d’onda del Medio IR (0,000002500 m – 0,000008 m) mentre quella di destra è della Near-Infrared Camera (NIRCam) specializzata nel vicino IR (0,000000780 m – 0,000002500 m), più vicino cioè al visibile. Si utilizzano entrambi perché frequenze elettromagnetiche diverse ci danno informazioni diverse sugli stessi oggetti. La NIRCam ci mostra non solo un quantitativo incredibile di Galassie ma numerosissime stelle (quelle che sembrano avere dei “raggi”) e anche Galassie in realtà lontane da noi 13,7 miliardi di anni luce, nate agli albori dell’universo. Infatti, gli archi di luce che sembrano difetti in realtà sono immagini di uno stesso oggetto molto più distante che subisce l’effetto di lente gravitazionale: la sua luce viene deviata e moltiplicata dalla curvatura gravitazionale dell’ammasso di Galassie che JWT sta osservando. 

La seconda immagine è lo spettro più dettagliato mai ottenuto dell’atmosfera di un pianeta extrasolare, WASP 96-b, grande circa 1,2 volte Giove con una massa pari alla metà della sua, a circa 1150 anni luce da noi. Ottenere uno spettro di un corpo celeste significa avere le sue impronte digitali e ottenerne uno così dettagliato significa capire davvero moltissimo: per esempio, abbiamo scoperto che la sua atmosfera è ricca d’acqua e spesso questa si trova sotto forma di nuvole e foschia. Sapere dell’esistenza di acqua su un pianeta è sempre molto molto interessante, per ovvi motivi… E siamo solo all’inizio! Lo strumento che ha permesso di avere questa misura spettrale è il Near-Infrared Imager and Slitless Spectrograph (NIRISS): studiare l’atmosfera di pianeti di altri Sistemi Solari ci permette di comprendere meglio il nostro, trovando analogie e differenze, approfondendo la possibilità che ci siano più pianeti come la Terra o come Venere, che è caratterizzato da un effetto serra notevole. Questo ci permette di capire quanto l’ambiente “spaziale” in cui siamo nati come pianeta-Terra influenzi il nostro clima, strettamente legato alla nostra atmosfera.

La nebulosa ad Anello vista dalla NIRCam (sinistra) e dalla MIRCam (destra) montate su James e da HUBBLE con la Wide Field and Planetary Camera 2 nel 2008 (sotto)

Nella terza immagine vedete la Southern Ring Nebula (NGC 3132) a circa 2500 anni luce da noi. Le nebulose planetarie (chiamate così perché ai telescopi dei primi astronomi ricordavano delle orbite di pianeti) si formano quando stelle di massa media, come il nostro Sole, espellono gli strati più esterni che interagiscono col mezzo interstellare creando magnifici disegni e lasciando al centro un piccolo oggetto caldo e luminoso chiamato Nana Bianca. L’immagine in basso è di HUBBLE (2008) e evidenzia il livello di dettaglio che si è raggiunto invece con JWT. La NIRCam (a sinistra) ci mostra i vari strati espulsi dalla stella originaria mentre iniziava la trasformazione in nana bianca: i più rossi sono quelli espulsi per primi e ormai raffreddatisi, mentre andando verso l’interno incontriamo quelli più “giovani” e caldi. Al centro sembra esserci un’unica stella ma, guardando l’immagine di MIRI (a destra) è evidente che le stelle sono due (anche HUBBLE ne mostra due se osservate bene): una giovane e blu, la stessa che si vede nella NIRCam e l’altra che è l’autrice della nebulosa planetaria, la nana bianca. Il suo colore rosso è dovuto alla polvere che la circonda che ne “arrossisce” la luce. Queste due stelle orbitano l’una intorno all’altra e anche la più giovane emette gas e polveri contribuendo alla creazione di questo capolavoro del cielo.

Come un capolavoro è la quarta immagine che ritrae l’Hickson Compact Group 92, chiamato il “Quintetto di Stephan” dal suo scopritore francese Adouard Stephan (1877). In realtà solo 4 di queste Galassie sono realmente vicine tra loro, a 300 milioni di km da noi: quella più a sinistra, la Galassia ellittica NGC 7320, è semplicemente autrice di un “photo-bombing” perché si trova molto più vicina a noi, a “soli” 40 milioni di anni luce. Questo lo capiamo subito dall’immagine di HUBBLE: è l’unica a non sembrare rossastra perché subisce meno l’effetto del redshift cosmologico. In questo caso particolare è MIRI a darci molte informazioni: utilizzando filtri colorati, ci evidenzia in rosso le zone polverose in cui si stanno formando nuove stelle, le zone più fumose sul blu indicano presenza di idrocarburi mentre quelle più giallo verdi sono Galassie più distanti, ricche anche loro di idrocarburi ma, a causa del redshift cosmologico, il colore blu si trasforma in colori meno energetici, cioè verde e giallo appunto. Il nucleo della Galassia più in alto (NGC7319) è così luminoso perché ospita un buco nero con una massa 24 milioni di volte quella del Sole che sta ingoiando moltissima materia che si scalda ed emette. Questa luce nell’ottico di HUBBLE sparisce perché assorbita dalle polveri. 

Quintetto di Stephan in un’immagine compostia NIRCam e MIRI (a sinistra) e solo MIRI (a destra) montati sul JWT e visto da HUBBLE con la New Wide Field Camera 3 nel 2009

Dulcis in fundo, la quinta immagine mostra una regione di formazione stellare all’interno della Nebulosa Carina (NGC 3324) a circa 7600 anni luce da noi, chiamata così perché si trova in corrispondenza della costellazione CARINA (da “carena”, la carena della nave ARGO guidata da Giasone trasformata in costellazione dalla dea Atena). Il nome di questa regione è “Cosmic Cliffs” (“scogliere cosmiche”) ed è stata scavata dai venti emessi dalle stelle giovani formatesi all’interno della cavità: come il vento sulla Terra erode rocce e montagne, così il vento stellare erode polveri e nubi cosmiche. Le “scogliere più alte” arrivano a misurare 7 anni luce! Le zone fumose sono regioni di formazione stellare e al loro interno le stelle più giovani appaiono rosse (a causa dell’assorbimento dalla polvere). Dettagli impossibili da scovare con HUBBLE (sotto). Nell’immagine a destra, è evidente come MIRI ci mostri altri dettagli nascosti alla NIRCam: sorgenti stellari dei getti visibili dalla NIRCam (color oro) e giovani stelle con i loro dischi di formazione (in rosa e rosso).

Le Cosmic Cliffs della nebulosa Carina visti dalla NIRCam (a sinistra) e da MIRI+NIRCam insieme (a destra, zoom della parte centrale dell’immagine precedente) montati sul JWT e vista dal nostro vecchio prezioso HUBBLE nel 2008

Prima dell’uscita di questo numero saranno state pubblicate altre immagini meravigliose dal JWT che continueranno a ricordarci quanto l’avanzamento della tecnologia sia fondamentale per capire sempre meglio il nostro universo mostrandoci dettagli che prima ci erano invisibili. Non solo: questi avanzamenti avranno ripercussioni per noi. Oltre alla possibilità di capire il nostro Sistema Solare studiandone altri lontani, abbiamo già iniziato a sfruttare sulla Terra la tecnologia per creare delle lenti perfette sviluppata per la struttura del JWT, come anche quella che ha migliorato e perfezionato i sensori IR, sensori in grado di monitorare, per esempio, la temperatura e quindi davvero importanti per capire l’andamento anche del cambiamento climatico. Forse non sarebbe stato necessario fare strumenti spaziali per arrivare a questi miglioramenti ma di certo se non ci fossero astrofisica e ricerca spaziale il tempo che avremmo impiegato sarebbe stato molto più lungo. Il motivo per cui i vaccini per il COVID sono stati sviluppati in pochissimo tempo è che c’è stata una necessità talmente importante da far convergere tutta la ricerca su questo obiettivo. La scienza dello spazio guarda alla necessità dell’umanità di guardare oltre con lo splendido risultato di portare nuova conoscenza in tempi molto più brevi. Per questo motivo, proprio mentre JWT inizia la sua opera, gli scienziati pensano già alla realizzazione del prossimo progetto: l’ High Definition Space Telescope, con oltre 11 metri di diametro.

Fonti

https://www.nasa.gov/webbfirstimages

https://news.ucr.edu/articles/2022/01/11/how-webb-telescope-could-ultimately-help-protect-earth

https://spinoff.nasa.gov/

*Martina Cardillo, astrofisica

Martina Cardillo