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Il Fiore del deserto

E’ rimasta solo una pianta, nel giardino tra le macerie. L’ impiantito del giardino si è sollevato, il bordo della fontanella col putto è ammuffito, le vecchie inferriate arrugginite sono prese d’assalto dall’edera, in feroce espansione. Il portone della casa è sprangato e in evidente stato di abbandono. Alle finestre, vasi di gerani ormai secchi. Sul muro di cinta, i soliti graffiti incomprensibili ma almeno colorati. Le cose, quando non le ami più scoloriscono. In quella desolazione, dove prima c’erano roseti e aiuole in fiore, sta crescendo un’unica pianta, proprio vicino alla fontanella ammuffita. Gialla come il sole, e del sole si fida; segue il vento e si lascia accarezzare. L’ uomo che abitava quella casa ha avuto paura della solitudine.  Un giorno, ha preso il suo capello e la sua valigia, e non è tornato più. Era uno di quei primi giorni d’ autunno, quando i gerani sono ancora belli e gonfi e ancora sboccia qualche fiore tardivo, sotto la dolcezza dei raggi gentili. Ha preso un fascio di carte, le fotografie tagliate a metà, ha chiuso bene le finestre del primo e del secondo piano; sotto il portico, ha riaccostato le due poltroncine di vimini bianche; una dolcezza inutile ha sfiorato il tavolino esile, sul quale ancora brillava un mazzo di fiori gialli. Lo ha salutato il cigolio del cancello, provocato sempre dalla rotellina di ferro, sulla soglia di pietra.  Adesso l’ortica è cresciuta ovunque: il suo esercito verde e viola ha invaso rapidamente le aiuole, i sentieri: ridotto tutto a un mare verde, infestato tutti gli angoli, vittoriosamente. L’ortica, barbara e guerriera, smeraldina, l’ortica da evitare.

C’è una donna. All’altro capo del mondo; ha una bella casa, tutta dipinta di bianco, con gerani ai balconi e roseti nel giardino: voci di bambini, nell’ombra fresca del patio. In un angolo, vicino alla fontanella col putto, giganteggia un ciuffo di ortica. Un giorno si è punta, tentando di estirparla. Tutto il giorno quel prurito sul polso, appena una macchiolina rosa, un dolore sottile, un piacere intenso. Un paio di calzettoni bianchi, ginocchia scoperte e sbucciate, di corsa per quei campi abbandonati, al lato dei sentieri appena disegnati, sulle soglie di case di campagna. Passi veloci in quel buio di roveto, dove nascevano viole e primule, tra le foglie secche dell’ultimo autunno, vittoriose sulle chiazze di neve ghiacciata. Le piacevano da sempre   le  piante  irriducibili, quelle che  sperano nel  vento e nella forza contenuta dentro la capsula del seme: l’ombrello bianco del sambuco, il rosa capovolto del ciclamino, la malva  con i suoi fiori larghi, la salvia con le foglie color luna, le margherite  vergognose e timide nel rosso dei boccioli, il verde del muschio, così morbido al tatto, così soffice, sensuale, al punto che prova  sempre la voglia di accarezzarlo, su quei muretti a secco, sulle cortecce degli alberi esposte  a nord,  nei tronchi mozzati dove un  uccello o un  piccolo roditore fanno il  nido, persino sui muretti di città.  Da dietro una grande vetrata, spia la crescita di quella pianta selvaggia e solitaria: “Le sue radici colonizzeranno il giardino; dovrei decidermi a toglierla. Ucciderà tutte le altre piante, se la lascio crescere, spaccherà le mattonelle del vialetto.”   

Il desiderio si mischia alla paura. Quel giallo, accarezzato dal vento, ormai fa parte del suo giardino. Per il momento la pota, anche se non si potano quelle piantala sorveglia, le ha costruito attorno un’aiuola di sassi. Le offre un po’ d’acqua, nei giorni di eccessiva calura.  A volte, vergognandosi, l’accarezza. 

Passeranno le ore, passeranno gli anni. Forse nella casa del patio arriverà un vecchio giardiniere e toglierà quella pianta infestante. La donna sarà ancora dietro la finestra. Avrà tra le mani un foglio di carta, bianco. Ma se ti avvicini e guardi, ci sono scritti pochi versi a matita. E in un bellissimo chiaroscuro, il disegno di una ginestra.

*Patrizia Tocci, scrittrice

Patrizia Tocci