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Vedere l’invisibile: le immagini di un buco nero

I buchi neri. Da astrofisica e divulgatrice, mi è ormai chiaro quanto questi oggetti affascinino l’immaginario comune. Ed è assolutamente comprensibile perché anche noi stessi scienziati non sappiamo esattamente cosa aspettarci dentro “quei così lì”. Conseguentemente la fantasia può scatenarsi in ogni teoria possibile e immaginabile e, diciamocela tutta, a chi non piacerebbe pensare che siano davvero dei tunnel spazio-temporali capaci di unirci a degli universi paralleli “Marvel-style” o di farci viaggiare nel tempo? 

Lasciamo la fantascienza da parte per stavolta però e soffermiamoci su quanto la scienza sia riuscita a capire su questi oggetti che ce la mettono proprio tutta per non farsi osservare. Il tutto inizia nel 1915, quando Albert Einstein pubblicò la sua teoria della relatività generale in un articolo con un titolo tutt’altro che sensazionale: “ “The Field Equations of Gravitation” (le equazioni di campo della gravitazione) all’interno del quale, tuttavia, c’era una vera e propria rivoluzione delle fisica, racchiusa nell’equazione delle equazioni: E=mc2. Questa equazione ci dice che massa ed energia sono interscambiabili o, per dirla con le parole che il fisico John Wheeler userà decenni più tardi: “Lo spazio-tempo dice alla materia come muoversi; la materia dice allo spazio-tempo come curvarsi”. Pochi giorni dopo la pubblicazione di Einstein, il suo collega e direttore dell’Osservatorio Astrofisico a Potsdam, Karl Schwarzschild, scrisse la prima delle soluzioni di questa equazione che, per noi poveri mortali, possiamo racchiudere in una parola: i buchi neri (nome coniato nel 1967 da Wheeler). Considerando che l’intero numero di Verbum Press non basterebbe a spiegare la fisica dietro tutto questo, banalizzo umilmente la questione.

Immaginiamo il nostro universo come un immenso materasso sopra al quale posiamo tanti oggetti di dimensioni diversa: dalla pallina da golf alla palla di cannone. Cosa accade sotto ognuno di questi oggetti? Che il materasso si curva in proporzione alla massa della palla che stiamo considerando. Questo accade anche allo Spazio: ogni singolo oggetto con una massa crea una curvatura che altro non è che la forza di Gravità dell’oggetto stesso. Più un oggetto ha massa, più la curvatura sarà accentuata. A curvarsi non è soltanto lo spazio ma anche il tempo. Pensiamolo come un elastico poggiato sul materasso. La parte di elastico vicino la curvatura viene allungata e lì il tempo passa più lentamente. Per darvi un’idea di quanto sia reale quanto dico, considerate che il sistema GPS deve tener conto di questo effetto: la curvatura della Terra comporta, infatti, una differenza temporale tra noi qui sopra e i satelliti GPS a circa 20000 km e se non ne tenessimo conto, Google Maps sbaglierebbe la nostra posizione di diversi km al giorno! Pazzesco eh? 

In questa davvero approssimata visione dello spazio-tempo, immaginate i buchi neri come delle palline di dimensioni minuscole ma pesanti quanto una palla di cannone.  Sotto la loro massa, il materasso spazio-temporale si curva talmente tanto da non far vedere più la pallina (la fantomatica “singolarità” di cui non sappiamo nulla) e da creare una “buca” gravitazionale davvero potente, talmente tanto da non far scappare nemmeno la luce. Da cui l’aggettivo “nero” (la solita nostra originalità). Non dimenticate che tutto questo, nella realtà, è in tre dimensioni e non in due ovviamente.

Gli archi luminosi in questa splendida immagine del telescopio Hubble, altro non sono che le immagini di Galassie che non dovremmo vedere ma che vediamo distorte e moltiplicate per effetto del lensing gravtazionale (NASA)

Possiamo dire che la natura ha proprio sfidato gli esseri umani con la creazione dei buchi neri “Voglio vedere come farete a dimostrare la loro esistenza visto che non emettono nulla!”. Ma alla fine dei giochi, possiamo dire che ci ha sottovalutati. E’ vero, questi oggetti non lasciano fuggire nemmeno la luce che quindi non può darci informazioni dirette su di loro come accade per la stragrande maggioranza delle sorgenti esistenti; la loro “buca gravitazionale”, però, può eccome e lo fa in due modi in particolare. Il primo è legato ai moti orbitali: oggetti orbitanti in prossimità di un altro oggetto più massiccio, quando sono nella parte di orbita più vicina (ricordiamoci che le orbite sono sempre ellittiche) subiscono delle brusche accelerazioni perché risentono maggiormente della sua curvatura gravitazionale. Tornando al nostro materasso pieno di palle, è come se ci lanciassimo sopra una biglia e questa, lungo la sua traiettoria, incontrasse la curvatura di una delle palle di cannone. Possono succedere due cose: o cade all’interno oppure scende e risale subendo un’accelerazione. E’ stato proprio lo studio delle orbite delle stelle attorno al centro della nostra Galassia a permettere ad Andrea Ghez e Reinhard Genzel di scoprire il buco nero che ospitiamo e per il quale hanno vinto il Nobel della fisica nel 2020. Quelle stelle, infatti, monitorate per decenni perché talmente lontane da necessitare tempi di osservazione lunghissimi per vederle muoversi, sembravano orbitare attorno al vuoto, cosa fisicamente impossibile: quindi lì doveva esserci un oggetto invisibile ma con una massa davvero notevole, il buco nero SgrA*, di cui abbiamo potuto stimare le caratteristiche anche senza vederlo. Il secondo effetto che ci permette di cogliere l’esistenza di un oggetto simile è straordinario: stiamo parlando dell’effetto di lente gravitazionale (gravitational lensing). Per capirlo, pensate a un oggetto che noi non dovremmo vedere perché posto dietro un’altra stella nella nostra linea di osservazione. A causa della curvatura gravitazionale di quella stella, la luce di quell’oggetto, in realtà, viene curvata e sdoppiata in modo tale che due sue immagini ingrandite e deformate (da cui “effetto lente”) appaiono ai lati della stella in questione, mostrandocelo anche se noi non possiamo vederlo. Pensando alla potenza della buca gravitazionale di un buco nero, è chiaro quanto questo comportamento fisico possa essere amplificato.

Ma a noi non basta. Perché per quanto tutto questo sia sufficiente a verificare l’esistenza questi oggetti incredibili, e anche a darci informazioni sulla loro massa, siamo esseri umani e abbiamo bisogno di “vedere” le cose e di conoscerle sempre più a fondo. Allora ci siamo focalizzati non sul centro del buco nero, quello che rimane e rimarrà invisibile, ma sul “subito fuori”. La materia che orbita e cade inesorabilmente nella buca gravitazionale creata dal buco nero, che forma il cosiddetto “disco di accrescimento”, si scalda ed emette radiazione X e gamma (la più energetica che esista) ma non ci da un’immagine del disco perché l’emissione può prevenire da qualsiasi parte in momenti diversi e non possiamo “mettere a fuoco” perché quei fotoni sono troppo energetici e quindi attraversano le lenti invece di “rimbalzarci sopra”. All’interno del disco di accrescimento, però, c’è il cosiddetto “anello fotonico” che non c’entra con i guanti fotonici di Ms Marvel, ma altro non è che l’anello creato dalla luce che orbita attorno al buco nero prima di venire ingoiata per sempre.  BINGO!

M87 (sinistra) e SgrA* (destra) con la comparazione delle loro dimensioni (ESO)

La collaborazione internazionale EHT (Event Horizon Telescope) nasce con lo scopo di spingere al massimo le capacità che abbiamo acquisito nelle tecniche interferometriche…che detta così, è come se non avessi detto niente, lo so. L’interferometria è una tecnica che permette di combinare il segnale proveniente da una singola sorgente rivelato da telescopi diversi in diverse posizioni sul globo. Le onde radio, che sono le onde elettromagnetiche più grandi che esistano, sono le più sfruttate proprio perché la loro dimensione permette di rivelarle da strumenti posti a diverse centinaia di km di distanza. Più strumenti di utilizzano, più l’effetto è quello di utilizzare un unico telescopio con il diametro pari alla diffusione combinata dei telescopi, ottenendo una risoluzione angolare (la capacità di distinguere la morfologia di oggetti lontani) sempre maggiore. Nell’immagine potete vedere che i radiotelescopi facenti parte di EHT sono sparsi per buona parte della Terra e, quindi, l’effetto finale è quello di un unico strumento con un diametro pari a quello del nostro amato Pianeta. Incredibile se ci pensate. 

Solo in questo modo siamo stati in grado di raggiungere una risoluzione tale (la più alta possibile visto che parliamo di uno strumento grande quanto il globo) da permetterci di “mettere a fuoco” regioni con dimensioni angolare (cioè le dimensioni apparenti che hanno in cielo alla nostra distanza) piccolissime, come gli anelli fotonici attorno a due buchi neri supermassicci (da milioni a miliardi di volte la massa del Sole): M87 (2019) e Sgr A* (2022).  In pratica, è come se avessimo mappato la fossetta di una pallina da golf sita a Los Angeles osservandola da New York. Capite quindi che a far notizia, oltre al fatto in sé, deve essere anche l’idea che ha portato a questi risultati, ennesima dimostrazione che l’essere umano può raggiungere davvero vette altissime se solo avesse la voglia di farlo sempre e comunque.

Fatto sta che nel 2019 è stata pubblicata l’immagine del buco nero al centro della Galassia M87, a 55 milioni di anni luce da noi (1 anno luce è circa 9,5 mila miliardi di km) con una massa pari a 6 miliardi e mezzo di volte quella del Sole e grande più del nostro sistema solare. Il quantitativo di dati raccolto in 5 notti è paragonabile a quello raccolto dall’acceleratore LHC in un anno di lavoro ed è il maggiore mai preso nella storia. Dati che devono essere suddivisi tra diversi hard-disk e poi fatti leggere, analizzare, combinare ed elaborare su un supercomputer. Tre anni più tardi, ecco poi arrivare l’immagine del “nostro” buco nero, Sgr A*, al centro nella nostra splendida Galassia a “soli” 26000 anni luce da noi. La domanda sorge dunque spontanea: ma se SgrA* è molto più vicino di M87, perché non lo abbiamo osservato per primo? Domanda legittima alla quale c’è una risposta altrettanto legittima. Il nostro buco nero, con una massa pari a 4 miliardi e mezzo quella del nostro Sole, è prima di tutto molto più piccolo di M87 (guardate l’immagine), il che rende l’osservazione dell’anello fotonico più complicata. “Sì però è pure più vicino”, direte voi. Vero ma le cose sono sempre più complicate di quanto sembrino. Infatti, essendo più vicino, noi vediamo muoversi la materia e la luce orbitanti attorno a SgrA* molto più rapidamente di quanto vediamo muoversi quelle attorno a M87. Il motivo è lo stesso per cui nel cielo, di notte in notte, vediamo i pianeti cambiare posizione mentre le stelle ci sembrano sempre fisse lì dove stanno, anche se in realtà si muovono molto più velocemente dei pianeti. Il trucco è tutto nella distanza. Più un oggetto è distante, più ci sembrerà fisso nel cielo. Basta anche osservare un aereo a diverse quote di altezza per rendervi conto della differenza. Insomma, la luce attorno a SgrA* si muove in modo così rapido che metterla a fuoco è stato decisamente più complesso rispetto a quanto lo sia stato per M87, nonostante esso sia distante decine di milioni di km da noi. Quindi capite che, nonostante sia stato il secondo buco nero di cui abbiamo mai avuto un’immagine, la soddisfazione di averla ottenuta è maggiore di quella enorme avuta per la prima immagine di M87.

La rete di telescopi della collaborazione EHT

Per chiudere rispondo a un’altra domanda che forse vi siete posti: ma se un buco nero, nella realtà, è tridimensionale, non dovremmo vedere una sfera di luce invece di un anello? Anche in questo caso, la fisica risponde: noi possiamo vedere solo i fotoni che sono deviati nella nostra direzione e questi, seguendo le leggi fisiche, sono proprio quelli tangenti alla buca gravitazionale che, guarda un po’, formano un anello. Non è semplice immaginarlo ma proviamoci: pensate alla buca gravitazionale 3D come a un pallone da calcio e immaginate della luce arrivare da dietro al pallone. Quello che vedremmo è un anello luminoso dietro al pallone e basta: questo accade ovviamente perché il pallone oscura la sorgente di luce mentre nel caso del buco nero, il pallone-buca gravitazionale la devia in tutte le direzioni permettendo di vedere solo quella deviata verso di noi. L’anello appunto.

Riassumendo: Einstein nel 1915 si rese conto di quanto la gravità fosse potente, Schwarzschild e successivamente Roger Penrose (il terzo premio Nobel del 2020) capirono che la teoria di Einstein implicava l’esistenza 

di alcuni oggetti particolare e incredibili la cui forza gravitazionale non poteva far fuggire nemmeno la luce. L’esistenza di questi oggetti, denominati da Wheeler “buchi neri”, è stata dimostrata anche non vedendoli direttamente, grazie alla conoscenza della matematica e della fisica. Conoscenza che ha portato alla scoperta di un buco nero proprio al centro della nostra bellissima Galassia con conseguente premio Nobel. E oggi, dopo poco più di un secolo da  Einstein, e dopo 50 anni dalla sua scoperta, noi scienziati lo abbiamo visto, rendendo visibile ciò che per natura doveva restarci invisibile.

*Martina Cardillo, astrofisica

Martina Cardillo