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Nella resistenza al nazifascismo le azioni di lotta furono plurali

Il caso degli Internati Militari Italiani (IMI) nei campi di prigionia in Germania

L’AQUILA – Quando si parla di Resistenza al nazifascismo il primo riferimento corre subito alla lotta armata condotta dai gruppi delle varie brigate partigiane, coordinate dal Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Oppure a quei reparti dell’Esercito italiano che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 – pur in mancanza di ordini dal Comando generale, in fuga con il Re verso Brindisi – scelsero di combattere invece di cedere le armi ai tedeschi, come accadde a Cefalonia e nei Balcani, a Roma e in Corsica. O come avvenne nel caso singolare della Brigata Maiella, nata a Casoli in Abruzzo nel dicembre del 1943 per iniziativa dell’avvocato Ettore Troilo, già collaboratore di Giacomo Matteotti, e del sottotenente dell’Aeronautica Domenico Troilo

Appena dopo l’8 settembre si erano costituite in Abruzzo bande partigiane e già il 25 settembre a Bosco Martese c’era stata la prima operazione di guerra contro i tedeschi. La Banda Patrioti della Maiella, costituita dai Troilo il 5 dicembre ’43 in coordinamento con l’esercito inglese tramite il maggiore Lionel Wigram, nel febbraio ’44 diventò Brigata Maiella, un vero e proprio reparto militare di combattenti inquadrato nell’VIII Armata britannica, vestendo divisa inglese e con la bandiera italiana, ma senza stemma sabaudo. Operò lungo la linea Gustav, nelle cruente battaglie del Sangro e di Ortona, insieme ai contingenti militari Alleati che, con gli sbarchi in Sicilia e Salerno, dall’estate del ’43 avevano iniziato dal sud la liberazione dell’Italia dall’occupazione tedesca. Dal dicembre ’43 e fino all’aprile del 1945 la Brigata Maiella operò eroicamente in Abruzzo, Marche, Romagna e Veneto, fino ad Asiago. Fu l’unico reparto italiano della Resistenza ad essere decorato di Medaglia d’oro al valor militare. 

Accanto alle formazioni partigiane, impegnate nella lotta armata contro i nazisti e i fascisti della Repubblica Sociale, fu peraltro rilevante il contributo di chi, a costo della vita, collaborò in vario modo con i partigiani, dando loro sostegno, assistenza logistica e informativa, oppure operando come “patrioti” una resistenza bianca umanitaria, in soccorso e copertura ad ebrei, o a militari italiani che dopo l’armistizio tentavano di raggiungere gli Alleati oltre il fronte tedesco, come capitò al sottotenente Carlo Azeglio Ciampi e a molti ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia, tutti aiutati a raggiungere Casoli da Sulmona, attraverso i monti d’Abruzzo lungo il “Sentiero della libertà”. Una resistenza umanitaria che ha scritto, al pari della lotta armata, altre pagine eroiche della nostra Resistenza

C’è infine un’altra Resistenza, nota agli storici e agli studiosi, ma che sfugge alla conoscenza dei più nelle sue dimensioni e nelle sue tragiche particolarità, perché combattuta fuori dall’Italia nei lager nazisti dai militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre. E’ la storia di oltre 600mila “internati militari italiani” (IMI) nei famigerati Stalag della Germania nazista, i nostri soldati, sottufficiali e ufficiali che operarono “resistenza” opponendo il loro rifiuto alla collaborazione con i nazisti, al costo di indicibili privazioni, sofferenze e in diverse migliaia di casi andando incontro alla morte per fame, stenti e malattie. Oltre cento questi campi di prigionia (stammlager), la gran parte situati in Germania e Polonia, ma anche in Austria, Russia, Ucraina, Bielorussia, Rep. Ceca, Francia e Slovenia. I nazisti usarono ogni mezzo di persuasione verso i prigionieri italiani perché scegliessero l’esercito tedesco o i repubblichini di Salò per continuare la guerra, offrendo ogni vantaggio rispetto alla durezza della detenzione nei lager. Scarso un 20% di essi aderì alle profferte: gli altri vennero considerati in un primo momento prigionieri di guerra, poi il loro status fu cambiato in “internati militari” che non riconosceva loro le garanzie della Convenzione di Ginevra. Infine, dall’autunno ‘44 alla fine della guerra, furono lavoratori civili per essere utilizzati come manodopera coatta senza le tutele della Croce Rossa loro spettanti. Gli internati furono di conseguenza impiegati nei campi e nelle fattorie, come pure nelle industrie belliche dove moltissimi persero la vita per le disumane condizioni di lavoro. 

Di questi “resistenti” l’Italia democratica e repubblicana, nata dalla Resistenza e sancita nella nostra Costituzione, non ha mostrato un grande interesse, sia dal punto di vista storico e culturale, sia sul piano politico e morale. E se è vero per un verso che la Repubblica nata dalla lotta di Liberazione ha dato giustamente il doveroso riconoscimento ai Partigiani combattenti in armi, dall’altro non è stata altrettanto magnanima con gli altri “patrioti” della Resistenza, in modo particolare verso gli internati militari italiani deportati in Germania che per quasi due anni – con dignità e senso del dovere – diedero prova di amor patrio subendone le durissime conseguenze e, moltissimi, finanche la morte. Fatto sta che tale ingente fenomeno resistenziale al nazifascismo, realizzatosi nei campi di prigionia della Germania nazista e che interessò oltre 600 mila internati militari italiani, è rimasto marginale, poco indagato e chiaramente trascurato, sia dal punto di vista storiografico che istituzionale, per oltre mezzo secolo. La questione è rimasta viva solo attraverso le testimonianze dei reduci dai campi di prigionia e le iniziative delle associazioni degli ex-Internati Militari Italiani 

Infatti, solo nel 2009 Italia e Germania hanno finalmente provveduto ad una significativa ricognizione storica degli anni di guerra tra italiani e tedeschi, tra il 1943 e il 1945, nei vari fronti di guerra, durante l’occupazione tedesca in Italia, con gli atti di violenza e le stragi perpetrate dalle truppe germaniche, infine una puntuale ricerca sugli internati militari italiani (IMI). La ricerca è stata realizzata attraverso la costituzione di una specifica Commissione storica italo-tedesca, insediata il 28 marzo 2009 dai Ministeri degli Esteri dell’Italia e della Repubblica Federale di Germania. Presieduta da Mariano Gabriele per l’Italia e da Wolfgang Schieder per la Germania, la Commissione ha lavorato tre anni, consegnando nel luglio del 2012 un importante Rapporto all’attenzione della storia. Nella pagina di presentazione del documento i due Presidenti della Commissione, M. Gabriele e W. Schieder, concludendo le loro considerazioni, hanno così dichiarato: “[…] Al termine del rapporto la Commissione formula una serie di suggerimenti, la cui realizzazione esula dalle sue competenze. Perciò essa si appella esplicitamente ai responsabili politici d’Italia e Germania affinché essi prendano in seria considerazione queste proposte e si adoperino per realizzarle nel più breve tempo possibile. Ciò vale soprattutto per la costruzione, a Berlino, di un memoriale per gli oltre 600.000 internati militari italiani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943, il cui triste destino collettivo è stato fino ad oggi ampiamente dimenticato.” 

Ora, le numerose fonti rinvenute dalla Commissione possono davvero aprire nuove e interessanti prospettive di ricerca sul fenomeno degli “internati militari italiani”. Si legge tra l’altro nel citato Rapporto, in apertura del capitolo dedicato agli IMI: “Sebbene gli internati militari italiani siano stati particolarmente colpiti dal regime nazionalsocialista e dal complesso passato di guerra italo-tedesco, dopo il 1945 il loro destino è stato completamente dimenticato. In Italia essi sono stati per lungo tempo messi in secondo piano dalla memoria della Resistenza. Nella Repubblica Federale Tedesca la leggenda della ‘Wehrmacht pulita’ portò a negare i crimini di cui essa si rese colpevole nei confronti della popolazione civile italiana e della minoranza ebraica, così come dei prigionieri dei campi di concentramento e degli internati militari italiani. […]”. 

Solo gradualmente agli internati militari riuscì l’accesso alla memoria collettiva, quando l’aspetto della “Resistenza senz’armi” opposta dai prigionieri italiani deportati nei campi di detenzione nazisti iniziò a costituire uno degli elementi della narrazione allora dominante sulla Resistenza al nazifascismo tra il 1943 e il 1945. Fu soltanto a partire dagli anni ‘80 che in Italia e in Germania la storiografia cominciò ad occuparsi di questo problema. Nonostante il ritardo con cui la ricerca è cominciata, molti aspetti centrali di questa tematica – il disarmo e l’arresto degli internati militari italiani, i tentativi di reclutamento nelle formazioni tedesche così come nell’esercito fascista della Repubblica Sociale Italiana, le loro condizioni di vita e di lavoro durante la prigionia tedesca – possono considerarsi solo oggi adeguatamente indagati e studiati. L’approccio storico sulle varie esperienze resistenziali schiude finalmente una nuova prospettiva di ricerca anche sull’ampio spettro delle condizioni di vita degli internati militari italiani, indica nuovi modelli di spiegazione oltre le narrazioni irrigidite in Italia e in Germania e contribuisce all’indagine di aspetti fino a questo momento trascurati.

Dopo l’8 settembre 1943 – si riferisce inoltre nel Rapporto – deposero le armi circa 1.007.000 di militari delle forze armate italiane. Il numero di soldati italiani che furono prigionieri dei tedeschi si aggira intorno ai 725.000, secondo lo Stato Maggiore dell’esercito tedesco, e intorno agli 810.000 secondo le più affidabili stime dello storico Gerhard Schreiber. Chi non riuscì a fuggire dovette decidere se restare fedele al giuramento fatto al Re o se continuare a combattere a fianco della RSI e della Germania. Coloro che si rifiutarono – si parla di circa 600/650.000 militari italiani – furono deportati dalla Wehrmacht nei campi di prigionia del Terzo Reich. Poiché nei campi proseguiva il reclutamento di volontari per la Wehrmacht e le SS, così come per il nuovo esercito della RSI, furono 197mila, secondo Claudio Sommaruga, gli ufficiali e i soldati che decisero di continuare la guerra al fianco di Hitler e Mussolini. Il 1° febbraio 1944, tra coloro che operarono resistenza e rifiutarono l’adesione alla RSI e alla collaborazione con la Germania nazista, secondo le stime della Wehrmacht, si contavano 24.400 ufficiali, 23.002 sottufficiali e 546.600 soldati. A questi erano poi da aggiungere circa 8.500 internati militari impiegati come forza lavoro sul fronte orientale. 

Incerto è il numero dei soldati, dei sottufficiali e degli ufficiali italiani che persero la vita dopo l’8 settembre 1943, sia durante il disarmo, sia durante la prigionia tedesca. Il numero dei morti ammonta a circa 50.000, quello dei dispersi a più di 10.000. In conseguenza del brutale modo di procedere della Wehrmacht, durante le operazioni di disarmo morirono circa 26.000 soldati italiani, per lo più nell’ex Jugoslavia e in Grecia: 6.500 persero la vita in battaglia, 6.000/6.500 furono uccisi perché cercarono di opporre resistenza e più di 13.000 annegarono su navi colate a picco perché bombardate o a causa del sovraffollamento. Circa 5.200 furono i dispersi. Quasi 25.000 internati militari persero la vita nei campi di prigionia a causa delle privazioni, della malnutrizione e delle dure condizioni di lavoro. Il maggior numero di vittime si ebbero nelle grandi industrie tedesche addette alla produzione di armamenti. Sconosciuto infine è il destino di altri 5.000 internati militari, le cui tracce si sono perse nei vari lager.

I campi di prigionia, chiamati Stammlager oStalag, erano destinati ad accogliere sottufficiali e soldati, mentre gli Offizierslager erano per gli ufficiali. Nei territori del Reich vi erano oltre 60 grandi Stammlager e 15 Offizierslager, altri se ne trovavano anzitutto in Polonia come negli altri territori occupati dai tedeschi. I soldati e i sottufficiali trascorrevano solo poche ore al giorno nei lager e anche il loro tempo libero era così rigidamente regolamentato che non riuscivano quasi mai a sfruttarlo per riposarsi. Gli ufficiali invece, dal momento che fino all’inizio del 1945 non furono assegnati al lavoro, dovevano soffrire più della truppa e dei sottufficiali la monotonia e lo snervante isolamento. Oltre ai prigionieri di guerra e agli internati militari, i comandanti dei lager impartivano ordini anche alle guardie e ai loro ausiliari. Il 20 settembre ‘43, poco prima della proclamazione del nuovo regime fascista della RSI, un’ordinanza del Führer decretò che i soldati italiani fatti prigionieri vedessero mutare la loro condizione in “internati militari”. La definizione di questo status era per Hitler particolarmente importante. 

L’obiettivo rimaneva infatti lo sfruttamento economico del paese occupato ed il reclutamento sia come forza lavoro che come soldati volontari italiani. Per gli internati militari italiani questa scelta ebbe in ogni caso conseguenze molto pesanti: essi non avevano più diritto né alla consegna di alimenti e medicine, né alle visite di controllo delle delegazioni della Croce Rossa internazionale, come invece era previsto per i prigionieri di guerra. Ben presto divenne chiaro che questa decisione comportava tuttavia molti problemi, in relazione all’impiego dei militari italiani come forza lavoro. A causa delle cattive condizioni alimentari, del trattamento umiliante, dei compiti spesso assegnati senza tener conto delle competenze dei lavoratori, delle istruzioni insufficienti, la produttività degli internati militari si rivelò assai inferiore alle aspettative. Inoltre la detenzione dietro il filo spinato, le pessime condizioni di lavoro nell’industria pesante o nelle miniere, faceva spaventosamente crescere il numero degli ammalati. 

Negli ultimi mesi di guerra le condizioni di vita degli internati italiani utilizzati come lavoratori peggiorarono in modo drammatico, soprattutto nelle zone urbanizzate. In certi luoghi il sistema di rifornimento andò in tilt completamente. Soprattutto dopo i bombardamenti i prigionieri si aggiravano impotenti nelle città distrutte, cercando di mantenersi in vita chiedendo l’elemosina, commerciando al mercato nero o rubando. Nelle zone in prossimità del fronte gli internati impiegati per la costruzione di fossati anticarro sentivano spesso di essere in pericolo di vita. A volte erano costretti a scavare fossati anche di notte, in tutta fretta, sotto la continua pressione delle guardie, soffrendo per le pessime condizioni igieniche e alimentari, per le marce estenuanti ed il vestiario inadatto. A causa dei bombardamenti e della celerità con la quale questi lavori dovevano essere eseguiti, cresceva la predisposizione alla violenza del personale di guardia. A questo s’aggiunse la durezza dell’inverno 1944-45. Il numero di morti e malati era alto. Non pochi furono uccisi perché scoperti a rubare qualcosa da mangiare. La Gestapo fu autorizzata a giustiziare sommariamente i lavoratori sorpresi a rubare o che tentavano la fuga o atti di sabotaggio. Anche la popolazione civile tedesca prese parte a questi eccessi di violenza, dei quali caddero vittime, poco prima della fine della guerra, migliaia di stranieri, tra cui centinaia di internati militari.

Con la sconfitta dei tedeschi da parte delle truppe alleate e la liberazione dei campi di prigionia, il ritorno a casa degli internati militari viene ricordato da ciascun reduce con grande commozione. Ancor oggi la maggior parte degli ex internati ricorda la data esatta del proprio ritorno. Tuttavia molti di loro incontrarono difficoltà non indifferenti nel reinserimento nella società italiana. Il panorama politico e sociale era completamente cambiato. Già sulla strada verso casa i più furono invasi da un senso di spaesamento. Le difficoltà maggiori le ebbero i reduci di orientamento politico conservatore o monarchico. Una volta tornati in patria si resero conto che i valori che li avevano aiutati durante la prigionia, come ad esempio la fedeltà al re, avevano perso qualsiasi significato. Mentre i partigiani che avevano combattuto la Resistenza godevano nella società italiana del dopoguerra di una considerazione pari a quella riservata due decenni prima ai soldati della prima guerra mondiale e venivano celebrati come la forza che aveva vinto sul nazifascismo, i prigionieri che rientravano dalla Germania incarnavano invece la disfatta dell’8 settembre, non ancora del tutto superata. 

L’agognato ritorno in patria fu talvolta percepito dagli internati militari come l’arrivo in un paese straniero. Le privazioni sofferte durante la detenzione sembrarono agli ex IMI ancor più insensate alla luce del degradamento sociale che erano costretti a sperimentare. La collera verso i connazionali, per l’atteggiamento che quest’ultimi avevano nei loro confronti, era frequente. Ma tali atteggiamenti erano causati solo dalla diffusa ignoranza sulle terribili condizioni patite dagli ex internati. Una scarsissima conoscenza delle vicende sofferte degli ex IMI che è giunta fin quasi ai nostri giorni. Ciò che i reduci trovavano particolarmente offensivo erano lo scetticismo e il sospetto di collaborazionismo, una situazione durata qualche decennio a stemperarsi, proprio in assenza di quella conoscenza storica su questa particolare resistenza al nazifascismo che deve finalmente avere pari dignità nella Storia della Resistenza, avendo essa stessa contribuito all’edificazione dell’Italia repubblicana, libera e democratica. 

Finalmente, il 19 novembre 1997, con il conferimento della Medaglia d’oro al valor militare all’Internato Ignoto,l’Italia rese agli ex IMI il doveroso riconoscimento, con una motivazione che fa giustizia del mezzo secolo di trascuratezza nella memoria: «Militare fatto prigioniero o civile perseguitato per ragioni politiche o razziali, internato in campi di concentramento in condizioni di vita inumane, sottoposto a torture di ogni sorta, a lusinghe per convincerlo a collaborare con il nemico, non cedette mai, non ebbe incertezze, non scese a compromesso alcuno; per rimanere fedele all›onore di militare e di uomo, scelse eroicamente la terribile lenta agonia di fame, di stenti, di inenarrabili sofferenze fisiche e soprattutto morali. Mai vinto e sempre coraggiosamente determinato, non venne meno ai suoi doveri nella consapevolezza che solo così la sua Patria un giorno avrebbe riacquistato la propria dignità di nazione libera. A memoria di tutti gli internati il cui nome si è dissolto, ma il cui valore ancora oggi è esempio di redenzione per l›Italia».

Rapporto della Commissione storica italo-tedesca (Luglio 2012)

https://italien.diplo.de/blob/1600290/91b68fe8ac6b370ee612debfee141419/rapporto-hiko-data.pdf

*Goffredo Palmerini, giornalista

Goffredo Palmerini