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Ricordo di Silvano Ceccherini, il rivoltoso che non voleva rinunciare

Dice la sua romanzesca biografia che fu scaricatore di porto, anarchico, vagabondo, rapinatore, bandito ma anche soldato della Legione Straniera Francese dal 1934 al ’39

Tra i primissimi autori della letteratura italiana conosciuti e la cui lettura è rimasta per sempre, c’è sicuramente Silvano Ceccherini, l’ex galeotto diventato, negli anni ’60 del Novecento, romanziere da “caso letterario” e da alcuni decenni, però, ingiustamente dimenticato e ignorato dalle antologie scolastiche ma anche dalla nostra Repubblica delle Lettere. Proprio per questo noi, a quasi mezzo secolo dalla morte, vogliamo ricordarlo, rendergli omaggio e contribuire anche a farlo conoscere a un pubblico il più vasto possibile attraverso il nostro foglio online. 

Nato a Livorno il  24 marzo 1915  e morto, dopo lunga malattia, a Minusio il 21 dicembre 1974, Ceccherini ha vissuto da libertario la sua breve vita, tanto da essere definito il “Jean Genet italiano” appunto per le sue particolari esperienze certamente non comuni di un’esistenza che lo ha portato a vivere la triste esperienza del carcere e che, però, grazie al suo grande desiderio di conoscenza, lo ha fatto diventare quel “caso letterario” di cui si parlava prima e, quindi, ottenere quel successo che, tuttavia, non gli diede mai alla testa. Oggi, dopo due anni di pandemia, potremmo dire che egli si presta ad essere anche un emblematico caso di resilienza, e cioè: come si possa, dall’esperienza amarissima del carcere, resistere al negativo della vita e, attraverso la cultura, cioè il tanto studio a tavolino, risalire la china, arrivare alle stelle, conoscere persino il successo dopo anni di buio e anche di tentativi di suicidio falliti proprio perché egli sentiva di non dover desistere e continuare a lottare in ogni modo, in quanto convinto, alla fine, come Ungaretti, che la morte si sconta vivendo.

Dice la sua romanzesca biografia che fu scaricatore di porto, anarchico, vagabondo, rapinatore, bandito ma anche soldato della Legione Straniera Francese dal 1934 al ’39. Da questa esperienza nacque il romanzo Sassi su tutte le strade, pubblicato da Rizzoli nel 1968. In questo libro scrive che: …Ci sono sassi su tutte le strade; su tutte le strade ci sono dolori… e, in effetti, dal 1940, iniziano i suoi dolori e le sue sofferenze per una vita vissuta, come dire, un po’ da deviante, da irregolare e che lo porterà a passare molti anni nelle patrie galere. E non è un caso che il suo primo romanzo, pubblicato nel 1963 da Feltrinelli, è proprio sulla dolorosa esperienza di detenuto e che si intitoli La traduzione, appunto il trasferimento da un carcere all’altro. In questo romanzo c’è già il Ceccherini che, in cella, si è (direbbe Flaubert) ubriacato di letteratura, tanto da diventare scrittore di successo e anche traduttore di importanti autori francesi. La cultura che Ceccherini acquisisce in carcere è davvero enorme e, di fronte alle sue opere, anche scrittori esigenti come Vittorini e Bassani rimasero positivamente impressionati. Giorgio Bassani, che lo scoprì, ebbe a dire: Non abbiamo mai avuto molta fiducia nella letteratura dei non letterati, ma una volta tanto abbiamo avuto torto, torto marcio, e Luigi Baldacci parlò di decennio ceccheriniano: Dieci anni durante i quali Ceccherini ha scritto cose di prim’ordine, “La Signorina della posta”, “Dopo l’ira”, “Lo specchio nell’ascensore”, “Sassi su tutte le strade”, “L’avventuriero di Dio” (un libro destinato ai cattolici nel quale Silvano racconta il senso e i significati della religiosità e della spiritualità ndr). Anche quando si è presentato in veste memorialistica, basta pensare alle sue struggenti immagini di una ormai perduta Livorno, non si è fermato a piangere su se stesso, ma ha cercato di ricavare il significato probabile della propria esistenza.

Chè, Ceccherini, in verità, questo cerca e ricerca con la parola scritta e la riflessione sulle vicende della vita che ci condizionano e fanno di noi ciò che siamo: la ricerca del senso della vita e il modo in cui possiamo resistere al male e al dolore. Solo la cultura e la scrittura consentono questa via d’uscita, questa resistenza. E, così, quando leggi Ceccherini non puoi non amarlo, non puoi non sentirlo vicino e non puoi non provare per lui un sentimento di simpatia, e questo perché ti avvedi che di fronte hai un uomo che ha preso atto dei suoi errori, per i quali ha pagato, e che nel carcere è diventato un altro: un uomo di grande cultura e di grande umanità, che moralmente si è elevato e che, adesso, può guardare alla vita e agli uomini da un certo punto di vista e attraverso una visione aerea che gli consente di avere quasi pietà per i suoi simili, gente che, il più delle volte, vive la vita senza grandi valori e senza grandi ideali, ma quasi sempre su un piano basso, se non rasoterra. Per questo, dopo l’ira, non resta che aprire il quaderno e iniziare a scrivere, per affidare alla parola scritta il senso della nostra vita e il racconto dell’uomo nel bene e nel male.

A nostro modo di vedere, sono due i capolavori assoluti di Ceccherini: Dopo l’ira (1965) e Lo specchio nell’ascensore (1967), entrambi editi da Rizzoli ed entrambi autobiografici come, del resto, gli altri romanzi. Del primo colpisce, innanzitutto,  l’incipit così insolito in un romanzo italiano: un incipit che, dopo più di quarant’anni, resta ancora impresso nella mente, come se lo avessimo letto oggi: Uscivo nel sole della strada e il mondo era mio. Con Ghigo, Pelle, Nottolino, ne dividevo il possesso. Nostri erano i gatti rognosi, i cani senza collare, i bussoli rumorosi, le bucce dei cocomeri, i sassi per fare la guerra. Ma crebbi e dovetti guadagnarmi il pane… I padroni mi licenziavano perché sbadato e inetto, mia madre per inculcarmi l’amore al lavoro mi dava meno minestra… Sembra un quadretto neorealistico e, comunque, in tutto il romanzo, la resa realistica è davvero notevole. Quello che, però, più colpisce è il fatto che il ribelle e rivoltoso protagonista trova la sua salvezza nella scrittura, nel quaderno da riempire per placare l’ira, la rabbia che lo ha dominato in tanti anni passati nel carcere. E fa venire in mente un pensiero di Italo Svevo: fuori della penna non vi è salvezza. Scrivere consente al galeotto Ceccherini di resistere al Male della vita e di trovare la scappatoia alle sofferenze e al dolore che lo attanagliano.

Così, dopo vent’anni di galera e di una vita da romanzo, diventa un caso letterario e ne Lo specchio nell’ascensore può incominciare la narrazione con un incipit più sereno, disincantato e, insomma, da visione superiore della vita: Quel tipo grasso, che sembrava un vecchio soldato, aprì il cancello e fece quasi un inchino… Per vent’anni lo avevano trattato come un verme, da tre mesi era un personaggio importante. Più esattamente, gli davano l’illusione di essere un personaggio importante. In realtà contava niente, o pochissimo, nell’economia del mondo… Il disilluso protagonista sa che il mondo è crudele e che a regnare sono l’ipocrisia e l’inautenticità. La sua è ormai una rivolta morale e non più socio-economica. Non a caso la prima parte della narrazione è preceduta da una celebre frase di Albert Camus, tratta da L’uomo in rivolta: Cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se egli rifiuta, non rinuncia. Non rinuncia e non vuol rinunciare alla vita, anche se tenta il suicidio; e non vuol rinunciare ad avere un rapporto, un dialogo con i propri simili, dai quali, pure, ha ricevuto tanto male e gli hanno procurato tante sofferenze: Hai spianato una montagna per salire alla luce, e ora ti spaventa dover vivere in mezzo a gente simile? Non ti devi spaventare, sembra dire a se stesso, e quando, verso la fine,  può guardare se stesso come nello specchio di un ascensore e parlare alla sua immagine riflessa, ecco che gli vengono pensieri profondi, che sgorgano dagli abissi dell’anima e della mente: Continuerai a rifiutare molte cose, che sono l’oro, la ruggine e la zavorra della vita, ma la sincerità dolorosa da cui nasce il bene e il bisogno di comunicare, di istituire un rapporto, uno scambio, ciò lo devi accettare. E tutto questo pur sempre nella consapevolezza che il giudizio dei nostri simili è sempre superficiale e non si avventura nelle profondità, perché ciò richiederebbe uno sforzo e un impegno al quale si preferisce sfuggire. E, dunque, la conclusione è che la gente ha un banale piccolo metro per misurare e spiegare le cose terribili della vita che non capisce ma, nonostante tutto questo, non c’è il rifiuto dei propri simili e, anzi, alla fine, la serenità giungerà dalla sintesi conclusiva secondo cui la vera forza consiste nell’approdo a una saggia umiltà nelle relazioni umane, nella comunione con gli altri esseri umani dei quali, pur con i tanti difetti e limiti, non possiamo fare a meno nel corso della nostra terrena esistenza.

*Salvatore La Moglie, scrittore

Salvatore La Moglie