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La solitudine d’amore, tra Petrarca e Marenzio

La brama di una natura solitaria ed empatica, capace di condividere le pene d’amore, è il tema focale di un celebre sonetto del Canzoniere petrarchesco

La brama di una natura solitaria ed empatica, capace di condividere le pene d’amore, è il tema focale di un celebre sonetto del Canzoniere petrarchesco. L’io lirico si tuffa in paesaggi stilizzati, immuni alla realtà storica, e sprigiona il suo pathos attraverso una mirabile scorrevolezza musicale che fluisce, tra ossimoriche simmetrie e proporzioni sintattiche, in una perfetta armonia equilibratrice. 

È la poesia stessa a spianare la strada al canto. La declamazione si avvicina a un’intonazione e le parole oltrepassano la dimensione fonica per planare in quella musicale. I grafemi si trasformano facilmente in note, nel creativo pensiero dei compositori che, sull’abbrivo delle teorie di Pietro Bembo, confezionarono vesti musicali per le opere di Petrarca.

Solo e pensoso, racchiuso nel Nono libro de madrigali a cinque voci di Luca Marenzio, è uno dei più raffinati esempi di pittura sonora madrigalistica.

L’incipit è affidato al solo Cantus, che debutta con un lunghissimo sol, proprio sulla parola «solo», e attende la timida entrata dell’Altus e del Tenor I. Il Tenor II indugia fino alla fine del verso, per poi presentarsi con una sequenza di semiminime, subito afferrata anche dal Bassus. Il motore pulsante è il Cantus firmus, l’unica voce che si dilata in solitarie semibrevi, «tarde e lente», che ascendono, un semitono alla volta, su una scala cromatica eccedente l’ottava. Un contrappunto imitativo inonda le altre parti, in un efficace gioco sonoro. Il Cantus non è più solo. Servono tutte le forze in campo per misurare i «deserti» pentagrammi. Una volta compiuta la missione, quando ogni voce ha esaurito il significato del testo, le cinque linee melodiche possono finalmente congiungersi in un frammento omoritmico che si spegne, per scandire la suddivisione binaria della prima quartina. 

L’andamento muta improvvisamente nei due versi successivi; i valori si accorciano e il cromatismo sprofonda in intervalli saltellanti, incalzati dal punto. Le voci scappano, in un malinconico acchiapparello che non ha il tempo e l’intenzione di celebrare un vincitore. C’è infatti bisogno di un rapido cambio di scenografia per affidare alle canore vestigia umane un nuovo compito: stampare «l’arena». Le note passeggiano nei vari registri con moderazione e fermezza. Un breve accordo omoritmico sull’ultima sillaba precorre la pausa generale che annuncia la conclusione della prima strofa. 

Nelle battute successive, le voci lottano per proteggere il poeta «dal manifesto accorger de le genti», tentando di aprirgli, invano, una via di fuga, che si materializza tra melismi e fioriture. Ma il rapporto di Petrarca con il «popol tutto» è lacerato da un’opposizione, che neanche la musica può risolvere: la ricerca dell’autenticità e la vanità di tutto ciò che è mondano. Inoltre, se anche il poeta riuscisse a eludere i contatti sociali, rintanandosi in una natura ascetica, non potrebbe, comunque, spezzare le catene amorose, che lo imprigionano dall’interno. Marenzio, “il più dolce cigno d’Italia”, ne prende atto e, arruolate le sue cinque voci, affida loro il compito di guidare il peccatore nella sua sconsolata scoperta. 

*Michela Mercuri, scrittrice

Michela Mercuri