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Iperconnessione: siamo ancora il cacciatore-raccoglitore

Lo smartphone si bagna accidentalmente e muore per sempre (no, non c’è riso che tenga). In un attimo di disattenzione ce lo rubano. In entrambi i casi la reazione istintiva è di vero e proprio panico: cosa facciamo senza smartphone? Come faremo a trovare la strada senza Google Maps? Come potremo controllare le e-mail? Come avviseremo il capo o il collega che se non rispondiamo non è colpa nostra? Come tranquillizzeremo nostra madre che ci chiama per sapere se stiamo bene? Come risponderemo ai messaggi degli amici che ci cercano? 

Un telefono è un telefono, rimpiazzarlo non è poi così complesso, sebbene possa essere una scocciatura, e un modo per risolvere le questioni urgenti si trova sempre. 

Il punto è che lo smartphone non è semplicemente un telefono. 

Siamo ormai talmente abituati ad utilizzarlo per le esigenze più disparate e per una quantità di tempo giornaliero talmente elevata che, quando siamo costretti a farne a meno, in un primo momento siamo inevitabilmente travolti dall’ansia e ci sentiamo persi, quasi come se all’improvviso fossimo tagliati fuori, isolati, incapaci di sopravvivere.

E un analogo senso di smarrimento, sebbene più attenuato, ci coglie, a ben vedere, anche quando, per esempio, un amico decide di eliminare il proprio account da un social network o peggio, udite udite, di disinstallare Whatsapp o l’app di messaggistica tramite cui siamo soliti tenerci in contatto. Le rarissime volte in cui qualcuno compie una scelta del genere, magari senza avvisarci prima, siamo colti da sgomento, abbiamo la sensazione che ci abbia tagliato fuori dal suo mondo, che non potremo più raggiungerlo in alcun modo (quando in realtà ci basterebbe telefonargli).

Ma perché in situazioni del genere siamo protagonisti di questi brevi attimi di psicodramma, per quanto sciocco o esagerato possa sembrare?

S’intuisce facilmente che occorre partire dal dato di fatto che la nostra è ormai a tutti gli effetti una società iperconnessa e che proprio l’arrivo dello smartphone ha segnato la svolta verso questa iperconnessione, rendendo Internet sempre disponibile in modo immediato, permettendoci di portarlo in tasca. Un cambiamento talmente epocale da aver ridisegnato le nostre abitudini pressoché in ogni ambito, compreso quello delle interazioni sociali.   

Come afferma Rogers Brubaker “[…]digital hyperconnectivity – the condition in which everyone is (potentially) connected to everyone, to an exponentially growing array of sensorembedded things, and to an infinity of digital content, everywhere and all the time – […]has recast social relationships, lifting them out of the here and now, disciplining and re-formatting them, and infusing them with new obligations, new expectations, and new anxieties. […] Hyperconnectivity has retrained us, re-socialized us, reshaped our dispositions, altered the basic rhythms of our being in the world. It has inflected our emotions, modified our neurochemistry – and perhaps even rewired our brains. It has profoundly altered our experience of space and time.”1.

L’accessibilità alla Rete e l’arrivo dello smartphone, quindi, hanno rimodellato la società, tanto che Jean M. Twenge li individua come spartiacque per l’identificazione di una nuova generazione, successiva a quella dei Millennial; la generazione dei nati dal 1995 al 2012 (per il momento), ovvero dall’anno in cui la Rete è stata aperta agli usi commerciali: è la iGeneration, i cui membri più anziani si sono affacciati all’adolescenza proprio all’arrivo sul mercato del primo iPhone, nel 2007. 

Gli iGen non hanno ricordi di un mondo senza Internet e, in base ai suoi studi sui giovani statunitensi, Twenge sottolinea che dopo il boom degli smartphone, a distinguere gli iGen dalla fascia di età precedente sia soprattutto il modo di trascorrere il tempo, il che li porta ad avere esperienze di vita quotidiana completamente diverse.

Concentriamoci, a questo punto, sull’iperconnessione intesa come possibilità di essere sempre connessi, condizione che nell’ultimo anno ci ha per certi versi “salvato”. La pandemia ha, infatti, chiaramente acuito quella che diventa una sorta di dipendenza dalla connessione, connessione cui va riconosciuto di averci reso meno difficile un periodo in cui le nostre vite sono state sconvolte in modi che non avremmo mai potuto immaginare, se non come sfondo di qualche romanzo di fantascienza apocalittica o post apocalittica. 

La pervasiva presenza della Rete ci ha permesso in molti casi di lavorare e studiare da casa e di sentire più vicini amici e parenti che non avevamo modo di raggiungere fisicamente come eravamo soliti fare, diventando per molti l’unica finestra sul mondo e una delle pochissime occasioni di svago.  

Certo è che stiamo vivendo un surplus di iperconnessione, se l’espressione può avere un senso: con il lockdown in particolare, anche un aperitivo con gli amici si è spostato su Skype, su Zoom o su Houseparty. E sebbene, come sottolinea Monica Bormetti, non ci siano dati clinici e di ricerca sufficienti a includere la dipendenza da Internet fra i disturbi psicologici e non si possa considerarla una patologia da curare né identificare quale causa di altri disagi, la maggior parte di noi ha dei momenti in cui si sente saturata da questo flusso continuo di input e output digitali, tanto da pensare che forse il passo verso il patologico sia meno breve del previsto.

Bormetti identifica efficacemente sette meccanismi psicologici che ci inducono a rimanere costantemente legati allo schermo. Fra questi alcuni ci risultano di particolare interesse. 

Innanzitutto parliamo di rinforzo variabile e rilascio di dopamina, il meccanismo alla base anche delle slot machine: non ottenere sempre la ricompensa spinge a ripetere più volte l’azione. “Riceviamo un rinforzo variabile anche con i nostri smartphone: non sappiamo in anticipo le notifiche in arrivo […] e ciò ci porta a controllare se ci sia qualcosa di interessante più spesso di quanto crediamo. […]”2. In questo processo gioca un ruolo fondamentale la dopamina, neurotrasmettitore implicato nel circuito del piacere che si attiva soprattutto nel momento dell’anticipazione del piacere.

Importante è poi il fatto che il nostro cervello sia predisposto a continuare un’attività fino a quando dei segnali esterni non gli indicano che è giunto alla fine. Siti web, piattaforme e social media sono strutturati in modo da non avere un fondo, potremmo scrollare potenzialmente all’infinito, il che ci porta a perdere la cognizione del tempo a consumare informazioni su informazioni senza esserne totalmente consapevoli (tale meccanismo è anche alla base dell’autoplay di Netflix o di YouTube).

La reciprocità sociale è un altro elemento chiave, poiché è sottilmente parte dell’architettura delle piattaforme web: come nella vita quando riceviamo un regalo sentiamo il bisogno di sdebitarci, così sui social se riceviamo un like o un commento da un amico saremo più inclini a darne uno o più in risposta.

A rivestire un ruolo fondamentale nella nostra continua presenza in Rete è poi la FOMO (Fear of Missing Out), ovvero l’ansia di perdersi qualcosa. L’essere umano possiede un meccanismo che lo porta ad essere più interessato ad evitare una potenziale perdita che ad andare incontro a un eventuale guadagno. Il costante bombardamento di notifiche, quindi, genera in noi l’ansia di perderne qualcuna che potrebbe essere invece fondamentale, il che ci induce a una rincorsa continua.

Il meccanismo della perenne interruzione gioca a sua volta un ruolo importante. L’essere umano prende la maggior parte delle decisioni attraverso il sistema cerebrale inconscio, veloce, superficiale e intuitivo, e non tramite quello lento, profondo e consapevole. La presa di decisione per via istintiva è implicata anche nella navigazione: le continue interruzioni sono un modo per attivare il nostro sistema inconscio, che ci fa compiere scelte su cui ragioniamo meno, per questo il nostro smartphone ci attiva e ci allerta in continuazione; così spesso i titoli più accattivanti e sensazionalistici sono quelli su cui clicchiamo più facilmente.

Tutti questi meccanismi, come detto, contribuiscono ad ancorarci agli schermi dei nostri dispositivi dotati di connessione Internet e in particolare a quelli degli smartphone che, come già accennato, sono differenti da qualsiasi device precedente e riescono a infiltrarsi in ogni istante della nostra giornata, tanto che molti, soprattutto fra i più giovani, tengono i loro cellulari vicini anche di notte.

Twenge ha chiesto ai suoi studenti che bisogno abbiano del telefonino mentre dormono e, al di là del fatto che molti lo usino come sveglia, quanto riportato dalla docente di Psicologia della San Diego University è significativo: 

“Ne parlavano come un tossico parlerebbe del crack: <<So che non dovrei, ma non posso evitarlo>>, ha detto una ragazza che, a letto, controllava il telefonino. C’era chi considerava lo smartphone come un’ancora di salvezza, un’estensione del proprio corpo o un innamorato. <<Avere il telefono vicino mentre dormo mi dà conforto>>, ha scritto Molly, vent’anni. […] è evidente che i teenager (e tutti noi) passano (passiamo) molto tempo al telefono: non a parlare ma a scrivere, a guardare i social e a navigare, a giocare.”3

Secondo i dati raccolti da Monitoring the Future gli studenti americani dell’ultimo anno delle superiori fra il 2013 e il 2015 passavano sei ore del loro tempo libero giornaliero tra messaggi, Internet, giochi elettronici e videochat, il doppio del tempo online rispetto ai coetanei del 2006, il grosso tra messaggi e social media, utilizzati per comunicare con gli amici al posto delle telefonate.

Nel 2015 le differenze di etnia e ceto sociale nell’utilizzo dei social media sono scomparse: ogni adolescente ha pari opportunità e i social sono diventati quasi obbligatori, in virtù anche di quella FOMO precedentemente citata.

Conseguentemente sono cambiati i rapporti interpersonali. Le ricerche dimostrano che i membri dell’iGeneration interagiscono fra loro faccia a faccia meno di tutte le generazioni precedenti e che restano collegati tra loro attraverso messaggi e social media, dove prende sempre più piede il cosiddetto live chilling, che consiste semplicemente nel divertirsi virtualmente insieme. Le interazioni con il mondo reale nella vita degli adolescenti sembrano essersi ridimensionate, e la pandemia, con le scuole chiuse e l’impossibilità di svolgere gran parte delle abituali attività quotidiane, ha esacerbato questa tendenza, coinvolgendovi, loro malgrado, anche gli adulti.

Al di là dell’ultimo anno e dei drammatici eventi che ci hanno travolti, comunque, “È una grande tentazione mandare un messaggio a qualcuno, o andare a commentare un suo post o una sua foto sui social, invece di chiamarlo per dire: “Ehi, senti, ti va di andare a mangiare un boccone?” Quella è una cosa che richiede programmazione”4. E se pensiamo alle difficoltà prepandemiche nell’organizzare anche semplicemente una cena fra amici, incastrando i mille impegni di tutti, forse ci renderemo conto che la tendenza non riguarda solo gli adolescenti. 

Tuttavia dagli studi di Monitoring the Future emerge chiaramente che le attività a schermo sono collegate a una minore felicità e a un maggior senso di solitudine rispetto a quelle extra-schermo. Sempre in contatto, ma non per questo più felici, insomma, tanto che fra gli adolescenti, oltre a un innalzamento dei tassi di depressione e suicidio, si sta diffondendo sempre più la Sindrome di Hikikomori, comparsa in Giappone negli anni 90, che induce i giovani ad isolarsi, chiudendosi in camera e rifiutando qualsiasi contatto umano: l’unica attività cui si dedicano è connettersi ad Internet.

Tirando le somme, dunque, forse possiamo finalmente dare una risposta alla nostra domanda iniziale. Perché non avere a disposizione il nostro smartphone ci genera inizialmente angoscia?

Innanzitutto perché in un contesto come quello attuale, in cui la FOMO regna sovrana, facendo presagire catastrofiche calamità qualora dovessimo perderci un qualunque evento, informazione o notifica, lo smartphone è la chiave, lo strumento che ci illude di avere sempre tutto sotto controllo e di non perderci nulla.

Ma in parte è colpa anche di un altro retaggio del nostro cervello, sintonizzato su accettazione ed esclusione sociale. 

All’epoca dei cacciatori-raccoglitori, gli individui che venivano allontanati dalla tribù spesso morivano perché non avevano nessuno con cui dividere il cibo e con cui riprodursi. Un esperimento ha dimostrato che anche di fronte a un’esperienza di esclusione sociale breve le persone vanno in tilt, i livelli di aggressività aumentano e nascono sentimenti di disperazione. Quando una persona viene esclusa da un gioco dagli altri partecipanti, si attiva la regione cerebrale preposta al dolore fisico.

E se le relazioni sociali si sono in gran parte spostate online, appare abbastanza chiaro perché perdere l’accesso immediato alla Rete ci crei tanti problemi: senza smartphone ci sentiamo esclusi, inconsciamente sentiamo di essere rimasti soli, come il cacciatore-raccoglitore allontanato dalla tribù, e, estremizzando, temiamo che da soli moriremo.

E se un amico disinstalla Whatsapp, beh, anche se a tirarsi fuori è lui, in fondo ci esclude dalla sua routine quotidiana.

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1. Brubaker, R., Digital Hyperconnectivity and the Self, in Theory and Society, 26 agosto 2020, pp. 1,2,3.

2. Bormetti, M., #Egophonia. Gli smartphone fra noi e la vita, Hoepli, 2019, p. 78.

3. Twenge, J. M., Iperconnessi. Perché i ragazzi oggi crescono meno ribelli, piú tolleranti, meno felici e del tutto impreparati a diventare adulti, Einaudi, 2018, pp. 74,75.

4. Ivi, p. 111.

*Monica Siclari, dottoressa in Comunicazione

Monica Siclari