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Femminilità e femminismo nelle scrittrici italiane tra fine Ottocento e Novecento, III parte

L’arco di anni che si apre dopo la Prima guerra mondiale sino alla caduta del fascismo nel ’43, definito per convenzione come periodo di ritorno all’“ordine”, non segna una significativa avanzata delle scrittrici e se ne avrebbe una prova convincente cercando le rare firme femminili sulla “Ronda” e su altre riviste importanti dell’epoca. Solo “Energie nuove” accettava la collaborazione di giovani scrittrici e saggiste e sporadici interventi femminili si rintracciano anche sul “Baretti”, dove Arrigo Cajumi, in un intervento sulla crisi del romanzo, rende omaggio a Grazia Deledda, fresca del Nobel, mentre stronca la Serao e la Negri, obbedienti alle leggi del mercato nazionale. Da parte di Piero Gobetti ancora un giudizio tagliente su Amalia Guglielminetti, “cervello vuoto e grossolano”, e una recensione negativa delle liriche e del romanzo I divoratori (1910) di Annie Vivanti. È una delle poche stroncature riservate alla scrittrice anglo-italiana (1866-1942), vissuta fra l’Italia, l’Inghilterra, la Svizzera e gli Stati Uniti, personaggio eccentrico, dagli interessi multiformi, grande viaggiatrice, protagonista della vita intellettuale e mondana internazionale, acclamata romanziera nei primi trent’anni del Novecento tradotta in tutta Europa. La apprezzavano Benedetto Croce, che le dedicò ben due saggi critici nel I e nel VI volume della Letteratura della nuova Italia e la definì “poetessa del capriccio, della passione fulminea”, e Antonio Borgese, che ne attribuiva la fortuna alla sua origine multietnica. Lodata anche da Pietro Pancrazi, Luigi Russo e Giosuè Carducci, a cui la scrittrice rimase affettuosamente legata fino alla morte del poeta, la Vivanti fu la massima esponente di quella diffusa letteratura femminile che esprimeva obbedienza e subalternità della donna all’uomo. 

Nella sua ricca produzione romanzesca e poetica, in cui alterna italiano e inglese, l’immagine del personaggio femminile conserva la sua consueta bipolarità di madre e ammaliatrice. Nel romanzo I divoratori anche la Vivanti indica nella funzione materna il naturale destino che assorbe l’identità individuale e collettiva delle donne. L’intera storia ha come tema dominante il contrasto tra l’insopprimibile vocazione riproduttiva delle tre protagoniste e la loro aspirazione a realizzare diversamente le loro personalità. L’importanza della maternità annienta sia i sentimenti di Valeria sia le aspirazioni artistiche della musicista Anne-Marie e della poetessa Nancy, che vengono soffocati dai più celebrati luoghi comuni dell’essere madri. Per la Vivanti l’istinto materno è anche più forte del naturale rifiuto che una donna oppone a una gravidanza frutto di violenza sessuale. È questa la tesi del romanzo Vae victis! (1918), in cui la protagonista Chérie cede alla voce interna che le chiede la vita e rinuncia alla sua legittima libertà di autodeterminazione. Il tema forte della violenza a una donna si sarebbe prestato a una rivendicazione femminista del diritto di scelta, mentre nella letteratura muliebre della Vivanti la consapevolezza dell’autonomia è nullificata anche nel caso di un’innocenza violata. Con il “Manifesto della donna futurista” della de Saint-Point e con la narrativa della Vivanti tocchiamo nella produzione letteraria femminile l’apice dell’antifemminismo e della legittimazione del possesso maschile, per cui la stroncatura di Gobetti, che definisce la Vivanti priva di personalità e immatura, suona oggi anche troppo benevola. Nel suo articolo “Sibilla”, pubblicato sul “Lavoro” il 12 luglio 1924 e dedicato al dramma in versi Endimione che era stato accolto negativamente dal pubblico di Torino, Gobetti esalta invece la Aleramo, “vivente sintesi della letteratura italiana contemporanea e persino del romanticismo vociano”, e la paragona per il suo genio a Madame de Stael. Oltre alle lodi di Gobetti, la Aleramo conquistò l’ammirazione di Giacomo Debenedetti, dal quale l’autrice di Una donna ebbe lettere lusinghiere, e di Sergio Solmi, che nel 1928 recensì sul “Baretti” le Poesie di Sibilla accostandole a quelle di Gaspara Stampa per i loro accenti appassionati. Nel panorama complessivo della produzione letteraria femminile dei primi decenni del Novecento, secondo il giudizio di Solmi, la Aleramo rimane comunque un’eccezione tra le scrittrici italiane, generalmente rimaste ossequienti alla tradizione morale e formale stabilita dagli scrittori. 

In pieno Novecento, si sottrae alla categoria del conformismo passatista Gianna Manzini (1896-1974), che già nel suo romanzo d’esordio, Tempo innamorato (1928), ben accolto dalla critica per la sua novità e recensito da Emilio Cecchi, André Gide e Valery Larbaud, si discosta dalla narrativa femminile canonica. Alla protagonista del romanzo, Rita, l’autrice attribuisce infatti un’invincibile vocazione alla libertà e una vitalità istintiva che la affrancano dai suoi ruoli tradizionali di moglie, madre e amante, e mettono invece in risalto il suo bisogno di affermarsi come persona, rifuggendo dalle trappole del possesso amoroso. Nei romanzi del dopoguerra, in particolare Lettera all’editore (1945) e Il valtzer del diavolo (1953), compaiono tipi femminili capaci di sottrarsi alla subordinazione maschile o alla falsa libertà di scegliere come scopo della loro vita la conquista dell’altro sesso. In Lettera all’editore la protagonista Laura riesce a sfuggire a un futuro di docile passività scegliendo la strada della ribellione, mentre nel Valtzer del diavolo, in cui la Manzini sperimenta l’uso del simbolismo, il personaggio di Silvia comprende i pericoli insiti nel modellare se stessa secondo il volere dell’uomo che ama e va verso l’affermazione di una sua identità autonoma. La sua decisione si rafforza nella allusiva sequenza finale del romanzo, in cui Silvia identifica il sosia di se stessa nel cadavere di una donna annegata, forse una suicida, che viene ripescata sotto i suoi occhi. La presenza del simbolismo e di liriche astrazioni costituiscono il timbro ricorrente nell’opera della Manzini, che raggiunge il suo miglior risultato nel romanzo La sparviera (1956), insignito del Premio Viareggio. Ne è protagonista femminile Stella, un’attrice emancipata e lontana dagli ingranaggi coercitivi che regolano la vita delle donne. Il suo personaggio vive prevalentemente nelle visioni allucinate del coprotagonista Giovanni, fino a divenire un’astrazione, un fantasma della coscienza del personaggio maschile. La diversità di figure femminili alternative viene messa in risalto dalla Manzini contrapponendo ad esse personaggi di donne dai tratti realistici, connotate dall’inferiorità del loro genere e subordinate all’uomo. Nella Sparviera, l’astratto e fantasmagorico personaggio di Stella trova il suo rovescio nella moglie di Giovanni, che impersona la sottomissione e la frustrazione dei sentimenti, mentre in Tempo innamorato alla libertaria Rita fa da contraltare la casalinga Clementina, una sorta di “signorina Felicita” di Gozzano, poco attraente e di buone virtù borghesi. Abbandonata dal marito e incapace di sentire rancore per lui, Clementina non si meraviglia che l’uomo si formi un’altra famiglia, dando per scontato il diritto dell’ex marito ad allontanarsi da lei, “una donna che affatica chi la guarda” . 

La condizione femminile torna ad essere analizzata da un punto di vista storico e sociologico nell’autobiografico Ritratto in piedi (1971), con cui la scrittrice toscana si aggiudica il Premio Campiello. Focalizzato sul rapporto affettivo della Manzini con il padre e sul dolore per la separazione dei genitori causata dal contrasto tra le idee anarchiche del padre Giuseppe e il perbenismo della madre Leonilda Mazzoncini, il romanzo svela i sensi di colpa della figlia per essersi distaccata dal genitore, mandato al confino nell’Appennino pistoiese all’inizio del regime e rimasto vittima di una mortale aggressione fascista nel 1925. Nel rievocare la storia familiare, la scrittrice la carica di valenze simboliche e adotta un’ottica maschilista, identificando nella coraggiosa figura paterna la positività del genere maschile, mentre l’altro sesso diviene simbolo di debolezza e sottomissione, che la voce narrante individua nell’errore commesso dalla madre: “Come perdonare alla mamma d’aver dato retta ai fratelli che la vollero separata dal ‘sovversivo’, dal loro nemico?”.

Il tortuoso percorso delle figure femminili della Manzini parte quindi da donne emancipate e libere opposte a figure rovesciate di donne “fatali” o di “angeli del focolare” per recuperare infine, su istanza del vissuto personale, il valore della virilità, respingendo la donna a un livello inferiore. 

Con maggiore coerenza d’intenti l’opera narrativa e saggistica di Anna Banti, il cui vero nome era Lucia Lopresti (1895-1985), pone al suo centro la condizione femminile, un tema costante che si accompagna alla riscoperta e alla reinterpretazione del romanzo storico ispirata alla poetica manzoniana del verosimile. Proprio dall’interazione di queste due componenti, secondo il critico Gianfranco Contini, nascono i migliori risultati. La collocazione nel passato delle vicende dei suoi migliori romanzi e racconti, Artemisia, Lavinia fuggita, La camicia bruciata, Noi credevamo, risponde all’esigenza della scrittrice di creare un distacco dal personaggio e dalla sua storia per poter più liberamente unire verità storiche e invenzioni. La poetica della Banti è molto lontana dal neorealismo, corrente di riferimento nel secondo dopoguerra, in quanto sin dalle opere d’esordio la scrittrice non condivide la concezione dell’opera letteraria come pura trascrizione della contemporaneità e delle sue problematiche. Da questi presupposti nasce uno dei capolavori della nostra narrativa, Artemisia (1947), che la Banti scrisse due volte, essendo andata distrutta la prima stesura sotto un bombardamento del 1944 a Firenze. Ne è protagonista la pittrice seicentesca Artemisia Gentileschi, “donna eccezionale, né sposa né fanciulla”, “una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi”. Con Artemisia la scrittrice apre un dialogo che va dal passato al presente e mette a confronto i due punti di vista sulle vicende narrate, ripercorrendo le tappe della sua vita intensa e travagliata, che aveva trovato nella vocazione artistica il suo riscatto. Della valente pittrice romana, figlia del famoso pittore Orazio, suo padre e padrone, disonorata a diciassette anni da Agostino Tassi, un collega del padre, oltraggiata nel processo di Corte Savella intentato contro il suo stupratore, sottoposta dai giudici a tortura, lei che era la vittima, per accertare la sua sincerità, e infine indotta da Orazio a un matrimonio riparatore con il pittore Pierantonio Stiattesi, che si faceva mantenere da Artemisia e dal quale ebbe quattro figli, la Banti mette in luce la ricerca tenace dell’affermazione di sé e del riconoscimento della propria bravura. In Artemisia l’aspirazione a realizzarsi nel “lavoro congeniale” convive però con la scelta di mettere in ombra, quasi annullare, la sua immagine di donna per non essere emarginata dal mondo dell’arte e dalle committenze, che era di dominio unicamente maschile. Il suo personaggio di donna libera e professionalmente affermata, inconciliabile con quello di moglie e di madre, è segnato dalla sconfitta nella sfera affettiva e alla sua difficile giovinezza si sommano l’abbandono del marito e il fallimento del suo ruolo materno. Le delusioni private sono compensate dalla sua fama di straordinaria pittrice, che la fa arrivare a traguardi inimmaginabili per una donna del Seicento. Richiesta da varie corti per la sua originalità, lavora a Roma, Firenze, Venezia e nel 1638 è chiamata a Londra dal re Carlo I e insieme al padre Orazio dipinge per la corte inglese. La sua vicenda assume un valore eccezionale se la si confronta con la condizione delle masse femminili dell’epoca e senz’altro il romanzo della Banti contribuì a destare interesse per la figura artistica e umana della Gentileschi, che divenne oggetto di studi femministi e simbolo ante litteram della liberazione della donna. Il valore esemplare attribuito dalla Banti alla figura storica della “pittora” Artemisia fu ribadito dalla scrittrice nel suo saggio del 1953 sulla “Responsabilità della donna intellettuale” nel quale prese a modello a modello Virginia Woolf e invitò artiste, letterate e scienziate a farsi promotrici della liberazione delle masse femminili.

Sulla necessità della parità tra uomini e donne e sulle finalità della letteratura femminile, la Banti intervenne, sempre nel 1953, sulla rivista fiorentina “Paragone”, da lei fondata insieme al marito Roberto Longhi, con uno scritto su “Storia e ragioni del romanzo ‘rosa’”, da lei accusato di favorire l’emarginazione femminile con le sue storie edulcorate, che perpetuano acriticamente i ruoli e i tipi tradizionali delle donne “contribuendo ad abbuiare le coscienze”. Sulla figura ex lege della Gentileschi la Banti modellò le protagoniste di altri suoi romanzi e racconti storici nei quali viene approfondito il tema dell’isolamento della donna che esce dalla sua condizione privata di reclusa e si muove alla conquista di una pubblica dignità, affrontando umiliazioni, dubbi e angosce nel suo cammino di ribellione. Ha questi caratteri la vicenda narrata nel racconto storico Lavinia fuggita, dove la protagonista, rinchiusa in un convento veneziano, è furtivamente dedita al “lavoro congeniale” di comporre “Cantate e concertini”. Come per Artemisia, anche per Lavinia l’apertura del suo ristretto mondo femminile è l’appassionata dedizione a un lavoro artistico che nel Settecento, epoca del racconto, è precluso alle donne. Lavinia reagisce alla sua frustrazione alterando gli spartiti di altri compositori destinati all’esecuzione orchestrale e trascrivendovi le sue musiche. Sa infatti che “nessuno suonerebbe una nota sola di quel che invento”, ma la sua trasgressione non le può assicurare alcun riconoscimento e la storia si conclude con la scomparsa della protagonista, forse fuggita alla ricerca di un luogo dove poter esprimere il proprio talento.                                

Altro personaggio storico rappresentativo della spersonalizzazione subita dalle donne è Marguerite Louise d’Orléans, figura storica e protagonista del romanzo La camicia bruciata (1973). La Banti si avvicina al personaggio della principessa d’Orléans, definita dagli storici del tempo “corrotta e proterva”, non con l’intento di assolverla dalle sue colpe, ma per analizzare la sua complessa psicologia senza pregiudizi. Il suo modello di riferimento è la Gertrude manzoniana, il male personificato in una donna che però è anche vittima del destino di reclusione impostole dalla famiglia. La Banti costruisce un ritratto di luci e ombre della protagonista ricorrendo, come in Artemisia, al confronto diretto tra due voci, quella della narratrice e quella di Marguerite, a cui si aggiunge un terza voce anonima in contrasto con i racconti della granduchessa di Toscana andata in sposa contro la sua volontà a Cosimo III de’ Medici. Marguerite dà di sé l’immagine di una donna di alto rango svilita e infangata dai suoi ipocriti nemici di corte, mentre gli interventi della scrittrice si spostano dal singolo personaggio alla mentalità, all’etica e alle norme sociali seicentesche, che avevano decretato la perdita di identità della fille de France trapiantata a Firenze, imprigionata dal nobile marito in una villa della campagna toscana e infine ritiratasi in lontani conventi francesi, dove concluse oscuramente la sua esistenza. Messa a nudo nelle sue più intime fragilità, la protagonista vive quindi, nonostante i suoi capricci, le tresche e le cattiverie, un destino di esclusione sociale, di allontanamento e infine di reclusione. Rispetto alle figure di Artemisia e di Lavinia, in Marguerite è però assente la motivazione a realizzarsi autonomamente e ad allargare i confini del suo mondo. “La dissociazione di una sola persona reale in due… è la dissociazione fondamentale della grande inventiva romanzesca borghese”, scrisse Pasolini recensendo su “Tempo”, il 6 maggio 1973, La camicia bruciata e centrando con le sue parole la componente di maggior pregio della narrativa della Banti, consistente nella sua capacità di sdoppiare la voce narrante e di rappresentare le vicende e i personaggi intrecciando focalizzazioni diverse. Una modalità narrativa sperimentale che la mette in sintonia con l’avanguardia europea del nuovo romanzo novecentesco e ne fa la scrittrice italiana del secolo.

*Lucilla Sergiacomo, scrittrice

Lucilla Sergiacomo