VerbumPress

Un verso per fermare l’attimo

Viviamo in un tempo in cui si parla tanto: al telefono, via sms, whatsapp, e-mail, in televisione. Telefonini, radio, televisione, computer hanno determinato un nuovo rapporto tra noi e il “mondo”.  

La TV ha abituato la gente ha parlare fluentemente; e non è merito da poco. Ma con la TV e con la rete ci siamo abituati ad appagarci di una visione banale del nostro essere nel mondo. Per la quotidianità ciò è sufficiente. Ma nel fondo del nostro animo si annida l’insoddisfazione. Noi sappiamo che l’apparenza superficiale non è tutto. Quello che non percepiamo è molto più di quello che percepiamo.

Noi vediamo (con i nostri occhi e con tutti gli strumenti tecnologici di rilevazione) solo una minima parte della realtà e solo alcune delle molteplici dimensioni in cui essa è strutturata. Della realtà che ci circonda e che struttura noi stessi, noi vediamo soltanto alcune manifestazioni metamorfiche.  Ci è sconosciuta, non percepita nella sua fondamentalità, la stessa realtà che ci circonda e ci permea, la realtà di cui siamo fatti. Noi tocchiamo solidi e liquidi, vediamo colori, sentiamo suoni, odori, sapori: in realtà esistono soltanto vibrazioni, onde con diversa frequenza e lunghezza, particelle con funzioni d’onda. Il nostro, in certo senso, è un mondo soltanto simulato, metamorfizzato. 

Siamo trasportati su una scala mobile della quale ci illudiamo di salire i gradini mentre i giorni e gli eventi ci scorrono accanto senza che possiamo fermarli, senza che possiamo arrestarci. Oggi poi, più che mai, l’insicurezza, il senso di precarietà, ci fanno sentire in balia della casualità.

Viviamo in tempi di pensiero debole, di destrutturazione della conoscenza. È andato così smarrito il senso profondo dell’arte, della poesia; e con esso la capacità stessa di percepirlo. La poesia è stata relegata al ruolo del divertimento intellettualistico, del relax, del solletico, dell’intrattenimento, dell’arzigogolo, del desiderio di apparire originali, all’avanguardia, alla moda; e la moda cambia ogni stagione.

Nelle scienze si cerca di dire in un modo che sia capito da tutti qualcosa che nessuno sapeva. Nella poesia è esattamente l’opposto” osservava sarcasticamente Paul Dirac. Ma non è così; la poesia non è mistificazione. La poesia cerca di dire in modo indiretto, allusivo, ma non finto, quello che sfugge alle espressioni inflazionate, abusate, sciupate dall’uso corrente.

Il bisogno della poesia nasce dalla scontentezza della banalità dell’espressione, dell’inadeguatezza della comunicazione. In un’epoca contrassegnata dalla sovrabbondanza di parole, constatiamo l’insufficienza del linguaggio quando vogliamo esprimere qualcosa di nuovo, di nostro, di non scontato. 

Per Blanchot “scrivere è portare in superficie il senso assente”; e Emily Dickinson affermava che “il poeta è colui che distilla un senso sorprendente da ordinari significati”. 

Il senso si promette alla poesia come la presenza rimandata di un’assenza. La poesia è un interruttore, un commutatore di banda, che fa sì che appaia sul nostro schermo interiore qualcosa che avevamo sotto gli occhi e che guardavamo senza vedere. Come quando sul teleschermo grigio ballonzola un pullulare di puntini; premendo il tasto giusto, il televisore si sintonizza e un’immagine appare. Un trasalimento dell’anima che sposta un po’ più in là il nostro orizzonte mentale, o così ci piace credere; quand’anche piccolo come quello della formica che s’inerpica su una zolla per ampliare il suo campo visivo. La poesia asporta la cateratta dell’abitudinarietà: un intervento oculistico di chirurgia estetica che ci apre gli occhi. 

Forse la vita è solo una “piroetta nel vuoto” (Cioran), ma più la realtà ci sfugge, più sentiamo il bisogno di preservare l’unicità del nostro vissuto, la suggestione di un’alba sul mare, l’emozione del primo amore, il dolore per la morte del nostro cane, il rimorso per un abbandono. Emozioni, percezioni provate e perdute; forse rimosse. 

C’è poi la vita non vissuta che si protende e si sovrappone a quella (che crediamo) vissuta. 

Tuttavia in poesia non c’è possibilità di rappresentazione diretta. Niels Bohr osservava che “quando si pensa ad un’emozione, questa scompare”. L’emozione, quindi, è il punto di partenza, non d’arrivo. Un punto di partenza, per di più, che bisogna dimenticare nella memoria volontaria perché riaffiori, metastatizzato, nella memoria involontaria; quella che ci riporta il senso ritrovato del tempo perduto, come la madelaine di Proust.

La poesia è come un sogno che dica e non dica, ma che (come certi sogni in prossimità del risveglio) ci lasci l’impressione di una rivelazione imminente. Rivelazione di che cosa? Di qualcosa che inconsciamente attendevamo perché trovasse espressione quello che oscuramente premeva dentro noi.  Nel momento in cui questo avviene, la poesia, l’arte, consentono uno scambio profondo, un’interazione di personalità simile a quella che si realizza tra due innamorati, i quali si compenetrano. Mittente e destinatario, sconosciuti l’uno all’altro, sono qui, adesso, compresenti – magari a distanza di secoli – in un’interazione che estrinseca l’uno e interiorizza l’altro.

Un verso baciato dalla grazia, per un raro dono degli dei, ci sorprende col palpito improvviso di bellezza ch’esso porta in superficie. E’ un tentativo (sia pur velleitario) di trait d’union tra l’esistere e l’essere; un tentativo che sembra sottrarci per un attimo alla spietata irreversibilità dello spazio-tempo.

*Corrado Calabrò, poeta

Corrado Calabrò