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Narciso e i narcisi. Mito, arte e psicologia

Ne Le Metamorfosi (8 d.C.) di Publio Ovidio Nasone (43 a.C.-17 d.C.) Narciso, superbo quindicenne preso dalla propria bellezza, disdegna l’amore di Eco, una ninfa che «non sapeva parlare per prima», ma «rimandava i suoni di chiunque parlasse» (Ovidio Le Metamorfosi, libro III, v. 358). Punito per il suo orgoglio dalla Dea della Vendetta, Narciso fu condannato a non innamorarsi mai e a non possedere la persona amata. Accadde così che il giovane, fermatosi presso una fonte durante una battuta di caccia, vide la sua immagine riflessa nell’acqua; iniziò, allora, a desiderare se stesso, ad accendersi e ardere dal desiderio per la propria umbra (v. 434), che tuttavia non riusciva ad afferrare e possedere. Consumato dall’amore per la sua stessa forma (v. 439) e ingannato da un’immagine che rimandava i propri gesti ed espressioni, illudendo così il giovane di aver trovato il proprio corrispettivo amoroso, Narciso (il cui nome deriva dal greco νάρκη ossia torpore) morirà di dolore per non poter possedere se stesso, mentre Eco lo osserva.

Ed è dal culto della propria persona che nasce il fenomeno del narcisismo, consistente nella fissazione nei confronti del proprio corpo e della propria personalità e nella conseguente, esagerata, ammirazione per se stessi. Questa tendenza, che può degenerare in patologia, determina un isolamento nel soggetto interessato, come evidenziato anche nella tradizione iconografica che trova nel celebre dipinto di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610), oggi alla Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma (1597-1599), un suo modello di riferimento. L’originalità dell’opera risiede – come nota Claudio Strinati nel catalogo della mostra Caravaggio e i suoi. Percorsi caravaggeschi da Palazzo Barberini – nella «geniale invenzione della doppia figura a carta da gioco di cui è perno il ginocchio in piena luce» e nell’eliminazione degli elementi relativi alla vicenda narrata da Ovidio, quali gli attributi della caccia e la figura di Eco. In questo modo viene valorizzata al massimo la figura di Narciso nella propria vanità, ma anche nella sua condizione di estrema solitudine e nel proprio dramma esistenziale.

Nel Novecento, quando la tematica comincia ad assumere una componente fortemente psicologica, complice la psicanalisi freudiana, il soggetto è stato trattato dall’artista forse più narcisista di tutti i tempi, l’esteta surrealista Salvador Dalí (1904-1989), che del culto della sua persona ha fatto un’arte, costruendo addirittura un tempio dedicato al proprio mito, la casa-museo-mausoleo di Figueres in Catalogna. Realizzato con il metodo della paranoia critica, basato sull’organizzazione logica delle immagini irrazionali affioranti dall’inconscio, il dipinto mostra la figura di Narciso – il volto nascosto, la testa su un ginocchio, i riccioli biondi legati in una coda mossa dal vento – che viene privata del suo essere e trasformata in un fiore bianco, secondo il racconto ovidiano. Pietrificato e irrigidito in una nuova forma, quella di una mano, il secondo Narciso presenta una testa-uovo, simbolo di rinascita, da cui germoglia  il fiore omonimo, nato nel luogo in cui si trovava il corpo morto del giovane.

L’analisi della produzione artistica incentrata sulla figura di Narciso rivela la presenza di elementi caratterizzanti l’iconografia codificata nel tempo: solo, chiuso in se stesso e concentrato semmai esclusivamente sulla vista, il personaggio non è in grado di comunicare e, quindi, di relazionarsi con gli altri, in quanto privo della voce, forma essenziale di espressione rappresentata nel racconto ovidiano dalla figura di Eco. 

Se non c’è comunicazione, dunque, non c’è amore. 

Infatti, l’auto infatuazione caratteristica del narcisismo moderno – per effetto di quella che Sigmund Freud nell’Introduzione al narcisismo definisce la «libido dell’Io»  – si traduce nell’esclusione degli altri e nella svalutazione delle loro doti, portando a un individualismo sfrenato oltre che all’esaltazione personale. Ne deriva un’«anestesia affettiva» determinata dall’impossibilità di “vedere” ed entrare in una forma di legame con l’altro, che è tipica della società odierna. Del resto, la passione «furiosa» del narciso, la sua «superbia capricciosa», che vorrebbero negare ogni forma di dipendenza dall’Altro, possono celare una fragilità – narcisistica, per l’appunto – sintomo di un profondo senso di inadeguatezza. 

Le numerose rielaborazioni pittoriche e fotografiche realizzate nell’età contemporanea testimoniano il perdurare di una tematica molto attuale, divenuta oggi una sorta di «comandamento sociale» (M. Recalcati, I tabú del mondo). Si tratta di revisioni di dipinti precedenti o di attualizzazioni del mito, che mostrano sempre uomini bellissimi e perfetti, malinconici o tristi, soli, incapaci di vedere l’altro, tanto sono presi da loro stessi, e che nella loro infatuazione narcisistica sembrano dire: «Sono pazzo, pazzo di me!» (M. Bettini, Il mito di Narciso: immagini e racconti dalla Grecia a oggi).

*Valentina Motta, scrittrice

Valentina Motta