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Al di la’ della persona: Simone Weil e il sacro

Simone Weil è stata una pensatrice francese nata nel 1909 e morta nel 1943, a soli 34 anni. 

 Nonostante una vita così breve è riuscita a segnare profondamente il secolo scorso, e sta segnando ancora di più il presente.

Insegnante e anarco-sindacalista; contadina a vendemmiare in Provenza e militante nella guerra di Spagna contro il franchismo; operaia nella catena di montaggio della Renault, e organizzatrice di un gruppo di crocerossine al fronte contro i nazisti.

Tutto questo perché Simone non voleva solo pensare i pensieri, voleva farli vivere; ha dato corpo alle idee, non si è limitata a coinvolgere la mente, l’intelletto, la ragione.

All’inizio della sua giovane vita si è impegnata totalmente nella società; quasi subito si è però resa conto dei grandi limiti di un impegno chiuso nel sociale. 

La condizione dell’uomo non è riducibile ai valori della polis, e neanche a quello della persona. Nello scritto “la persona e il sacro” la Weil polemizza contro chi crede che la “persona” sia il terminale dei valori umani, e apre uno spazio al di là della persona: quello del sacro. Lei diventa “testimone dell’assoluto”; testimone di qualcosa che non è riducibile alla persona, qualcosa che è “sacro” perché non è di qualcuno, ma di nessuno, e perciò di tutti. 

Noi viviamo il periodo storico successivo alla “morte di Dio” (F. Nietzsche), e questa “morte” sembra trascinare con sé tutto quello che “trascende” l’uomo (sacro, ideale, divino). Così all’uomo non restano che i prodotti sociali cui identificarsi, e così perde la dimensione nobile, trascendente, spirituale. E in questo modo l’uomo non danneggia, la nobiltà, la trascendenza, la spiritualità, ma la sua vita.

Una vita ridotta a consumare merce e leader politici, che vita è? Quella del rancore e dell’odio. Quella della assoluta povertà spacciata per una vita libera.

Con i pensieri raccolti nello scritto “la persona e il sacro” la Weil vuole ricordarci che noi siamo sì relazione orizzontale, sociale, umana, ma ancor di più relazione trascendente; relazione con una realtà più grande dei nostri bisogni e dei nostri desideri. Perché il vero bene è trascendente, diceva Platone, e Simone ha dato la sua vita per confermarlo.

Al di là della persona; verso il sacro?

C’è uno scritto, piccino e luminoso, che da solo basterebbe a garantire a Simone Weil una presenza eterna nel Pantheon degli uomini: “la persona e il sacro”.

Concepito a Londra poco prima di morire, analizza con uno sguardo totalmente “inattuale” la differenza tra “personale” e “impersonale”.

Se da qualche secolo “lo Spirito del Tempo” lavora per trasformare il “soggetto”, la “persona”, nel punto di riferimento fondamentale per la rappresentazione del mondo,

 in Grecia  la parola “soggetto” non aveva neanche il nome per poter essere detta, e quando la modernità l’ha messa in commercio , “soggetto” significava sub-gettato, sottoposto; non era ancora quell’esemplare che si pavoneggia sul piedistallo della modernità, convinto di essere il fine della storia ( “si ha ragione quando si dice che l’antichità non aveva la nozione del rispetto dovuto alla persona. Pensava con troppa chiarezza per una concezione così confusa” pag. 44; tutte le citazioni della Weil provengono dal libro Morale e Letteratura, ETS editrice, Pisa, 1990).

Prima che il sub-getto diventasse il dominus del mondo grazie alla presunta parentela col Dio Onnipotente, il “governo” del mondo apparteneva al destino, al Fato, alle Erinni e solo dopo avevano parola gli dei. 

Il reale allora potevano chiamarlo: cielo, bene, spirito, divino, e in tanti altri modi: in ogni caso era qualcosa che non era nella disponibilità dell’uomo; e neanche degli dei.

E la certezza della realtà di un’altra realtà riusciva a temperare la pressione dei “valori sociali”. 

Adesso invece l’uomo sembra non conoscere più nessuna realtà “trascendente” l’uomo; in ogni caso non la vive più. E allora le grinfie del “Grosso Animale” (Platone) tengono sempre più stretto il nostro cuore e la nostra mente.

Ma se non esiste più la realtà trascendente non è un male per il trascendente, è una tragedia per noi.

Simone è stata attraversata da questa “tragedia”; l’ha vissuta con tutta la sua intelligenza e la sua sensibilità. La vissuta dolorosamente, intensamente, sulla sua carne.

Per questo doveva essere “inattuale”. Non poteva adeguarsi alle gerarchie di “valore” che esaltano la “persona”, perché lei sapeva altro. Lo sapeva sia perché lo sperimentava dentro sé, sia perché i Greci glielo confermavano fuori di sé.

E poteva conoscere l’irrilevanza della “persona”, perché aveva fede in qualcosa più grande di sé.

Per questo non si è rassegnata a credere, con la modernità, che la persona è sacra: “Ciò che è sacro, ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale nell’uomo è sacro, e soltanto quello” ( pag. 41).

E l’impersonale, il sacro, resterà per lei sempre e solo il Bene trascendente:“il bene è l’unica fonte del sacro” ( pag. 38 );  qualcosa che trascende sia la persona e ancor di più la società.

Solo perché abbiamo perso il rapporto con l’impersonale, quello che un tempo si chiamava divino, trascendente, sacro, siamo costretti a rassegnarci dentro la realtà visibile come se fosse l’unica realtà. 

Da qui nasce la nostra povertà. Quella che ci costringe a “gonfiare” il valore  della soggettività, con la speranza di dare un equilibrio al nostro squilibrio.

Ma tutto quello che esalta la persona, non ci porterà mai a casa : “La scienza, l’arte, la letteratura, la filosofia che sono soltanto forme di realizzazione della persona, costituiscono un campo in cui si realizzano successi clamorosi, gloriosi, che fanno vivere dei nomi per migliaia di anni. Ma al di sopra di questo, molto al di sopra,separato da un abisso, ve n’è un altro, in cui stanno le cose di primissimo ordine. Queste sono essenzialmente anonime “( pag. 42).

E’ questo il campo che occorre indicare agli uomini; qui è necessario spingere lo sguardo per intuire qualcosa della nostra “verità”. 

Qui le persone sono veramente tutte uguali; ma qui non siamo più persone, siamo anonimi. Perché prima e al di là del soggetto, della persona, c’è qualcosa che non è riconducibile ai nostri nomi, alle nostre persone, ai nostri “valori”. Qualcosa di “impersonale”, ma estremamente più “vero” della “persona”.

“La perfezione è impersonale….Tutto lo sforzo dei mistici è sempre stato volto a ottenere che non ci fosse più nella loro anima nessuna parte che dicesse io. Ma la parte dell’anima che dice “noi” è ancora infinitamente più pericolosa”. ( pag. 43)

Questo “sforzo” può avvenire solo nella solitudine, quando i “valori” di un gruppo, di una comunità, non agiscono più da “filtro” tra il nostro sguardo e il mondo. 

Ogni collettività ha ambizioni, interessi, passioni, proprie, che quasi mai coincidono con la dolorosa esigenza di esplorare la realtà di un uomo solo :” il passaggio nell’impersonale si opera solo tramite un’attenzione di una rara qualità, possibile soltanto nella solitudine. Non solo la solitudine di fatto, ma la solitudine morale. Non si compie mai in colui che pensa se stesso come membro di una collettività, come parte di un “noi” ( pag. 43). 

Perché è vero che  la collettività dà delle risposte ai nostri bisogni, ma sono risposte  vicine ai nostri bisogni “animali”; risposte che chiudono, anziché aprire il nostro sguardo sulla “realtà”. Quella realtà, come ben sapeva Simone, che possiamo sperimentare solo con la “sventura”:

 ”Solo l’operazione sovrannaturale della grazia è in grado di condurre un’anima attraverso il proprio annientamento fino al luogo dove si coglie quella specie di attenzione che da sola permette di essere attenti alla verità e alla sventura. E’ la stessa per i due oggetti. E’ un’attenzione intensa, pura, senza moventi, gratuita, generosa. E quest’attenzione è amore” (61).

E’ la sventura, infatti, che ci obbliga a leggere con occhi puri la nostra vita. A leggerla così com’è. Altrimenti restiamo sempre prigionieri del Grosso Animale e non possiamo sperimentare  l’esaltante tragicità del nostro ex-sistere.

Solo quando la sventura ci apre gli occhi e il cuore, siamo costretti a capire che non è l’io, la persona, che conta, ma l’impersonale; “Ciò che è sacro nella scienza, è la verità. Ciò che è sacro nell’arte, è la bellezza. La verità e la bellezza sono impersonali”(43). Mentre “colui agli occhi del quale conta solo la realizzazione della persona ha perso del tutto il senso del sacro” (44).

E’ vero che qui tutto induce a credere la società come una forma di trascendenza; e in realtà la società trascende la persona, ma la trascende solo nel numero; i “valori” di riferimento restano invece gli stessi :“Non solo la collettività è estranea al sacro, ma inganna dandone una falsa imitazione” (pag.43).

*Tino di Cicco, scrittore

Tino Di Ciccio