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Marisa Manzini: simbolo di resistenza contro la criminalità organizzata

Intervista al Sostituto Procuratore Generale della Repubblica presso la Procura di Catanzaro

È con grande piacere che introduco l›intervista alla dottoressa Marisa Manzini, una delle figure più importanti nella lotta contro la criminalità organizzata in Italia. In qualità di Sostituto Procuratore Generale presso la Procura Generale di Catanzaro, la dottoressa Manzini ha dedicato la sua carriera alla giustizia e al contrasto della ‹ndrangheta, affrontando con coraggio le sfide di un contesto particolarmente complesso. Durante questa intervista, esploreremo il suo percorso professionale, le sue riflessioni sul ruolo della legalità e le esperienze che l›hanno portata a diventare una voce autorevole nella promozione della cultura della legalità.

La lotta alla criminalità organizzata in Calabria rappresenta una sfida costante. Quali sono stati i momenti più significativi della sua carriera in questo contesto? La Calabria è una regione meravigliosa, ricca di storia; le sue coste, il mare e le montagne ne fanno una terra dalle mille opportunità. Eppure è tra le regioni o, forse, la regione più povera della nostra Nazione, a causa della presenza di una organizzazione criminale, la Ndrangheta, che ne ha soffocato le potenzialità. La sfida, quindi, come Lei bene ha detto, è quella di mettere in campo ogni mezzo per sconfiggere la criminalità che spegne l’entusiasmo dei giovani e che porta le nuove generazioni ad abbandonarla. Io svolgo la professione di magistrato inquirente ormai da più di trenta anni e ho sempre lavorato in Calabria, malgrado la mia terra di origine sia il Piemonte. Mi sono innamorata della Calabria e della sua gente; credo di poter dire che i momenti più significativi e più gratificanti siano stati quelli in cui, a conclusione di processi contro la Ndrangheta, ho visto le vittime dei reati ringraziare la giustizia per avere dato risposte alle loro istanze, quando un padre e una madre che hanno perso un figlio, vittima di lupara bianca, hanno sentito pronunciare la condanna dell’autore di quel terribile delitto. Sono i momenti in cui ho amato il mio lavoro e ho capito che nella vita non avrei voluto fare nulla di diverso. Nel suo ruolo di sostituto procuratore generale, quali sono gli strumenti più efficaci per contrastare le infiltrazioni mafiose nelle istituzioni? Il mio ruolo attuale, diversamente da quello che ho svolto fino a pochi anni fa, è quello di rappresentare lo Stato nei processi in secondo grado, quando, cioè, vi è stata già una decisione all’esito di un primo processo ma, gli imputati, o lo stesso pubblico ministero, hanno impugnato il primo provvedimento. Si tratta, quindi, nei processi di mafia, di operare ogni possibile sforzo, anche attraverso la riapertura, ove ve ne siano le condizioni, dei dibattimenti, per meglio rafforzare le prove e per giungere alla condanna dei responsabili di gravi delitti. Occorre operare in piena sinergia con le Procure Distrettuali Antimafia per giungere a condanne che possano diventare definitive. Negli ultimi anni, i processi di ndrangheta che hanno visto il coinvolgimento di uomini delle istituzioni non sono pochi e il compito del magistrato è certamente quello di smascherare chi abbia tradito il giuramento di operare per il bene di tutti, piegandosi alle logiche delle organizzazioni criminali. Lei è spesso in prima linea contro la ‘ndrangheta, un’organizzazione criminale complessa e radicata. Quali si ritiene siano le principali difficoltà nel sostenere i suoi membri? La ndrangheta è una organizzazione che trova la propria forza e potenza nei legami di sangue. La cellula della ndrangheta è la famiglia, al tempo stesso anagrafica e mafiosa. Gli stretti legami tra i suoi membri hanno favorito la ermeticità della organizzazione e la pressoché assenza, per molti anni, di collaborazioni con lo stato. Negli ultimi anni, grazie alla efficacia delle operazioni di polizia, qualcosa si è mosso e anche nella ndrangheta si sono registrate collaborazioni. Le collaborazioni che maggiormente preoccupano l’associazione sono quelle che provengono dalle donne. La sua figura è diventata un simbolo di resistenza contro la criminalità organizzata. Come vive personalmente la pressione e i rischi legati al suo lavoro? Ho scelto, molti anni fa, di svolgere la professione del magistrato e di operare nel meridione d’Italia, consapevole dei rischi che una tale scelta avrebbe potuto portare con sé. Non ho mai avuto dubbi che sia stata la scelta giusta. Certo, il lavoro del magistrato in territori in cui la criminalità organizzata è potente e violenta non è semplice; ci sono stati momenti particolarmente delicati e difficili in cui ho provato il sentimento della paura. Da oltre venticinque anni sono sottoposta a protezione e ho una scorta, composta da uomini della Polizia che non posso che ringraziare, che ogni giorno mi segue e mi protegge. Nel suo ultimo libro, “Il coraggio di Rosa. Storia di una donna che ha ripudiato la ‘ndrangheta”, quali aspetti del suo lavoro e della lotta alla criminalità organizzata ha maggiormente voluto mettere in luce? “Il coraggio di Rosa” è la mia terza opera. Le prime due erano saggi, questo è un romanzo. E’ stata anche questa un sfida, volevo arrivare con più facilità alle persone, soprattutto ai giovani, con un linguaggio che fosse più immediato e semplice, occupandomi, però, del tema della ndrangheta. Ho pensato potesse essere un modo per lanciare messaggi attraverso uno strumento maggiormente attrattivo. Il tema che ho voluto far emergere è quello che attiene alla figura femminile all’interno dei contesti mafiosi; Rosa è una donna che vive in una famiglia di ndrangheta, che gode dei privilegi di essere donna di un capo ma che sconta anche gravi limitazioni alla propria libertà di essere umano a cui, a poco a poco, viene calpestata la dignità. Le donne, nella ndrangheta sono assoggettate alle decisioni dei maschi, diventano strumenti nelle loro mani. Qual è il messaggio principale che spera di arrivare ai lettori attraverso il suo libro? Ho voluto, con questo romanzo, mandare, alle donne di ndrangheta, un messaggio forte e chiaro: con coraggio e determinazione si può scegliere, avvicinandosi allo Stato, di riacquistare la propria libertà. Ai lettori vorrei che arrivasse il messaggio secondo cui la ndrangheta è una organizzazione che calpesta gli esseri umani, che si ritiene padrona di territori e di persone a cui può, con la intimidazione e la violenza, imporre le proprie pretese. Soprattutto, vorrei che si capisse che la ndrangheta è un problema che riguarda tutti e che, come a Giuseppe, nel romanzo padre di Rosa e di Francesco, persona per bene ed onesta, è stata travolta l’esistenza a causa delle scelte sbagliate dei propri figli, così può travolgere, da un momento all’altro, l’esistenza di chiunque.

Quanto è stato importante per lei condividere attraverso il libro il lato umano del suo impegno contro la criminalità? Malgrado io ami la mia professione, ho capito che occorre fare di più. Il magistrato entra in gioco quando già i reati sono stati commessi e i danni alla collettività si sono realizzati. Occorre, allora, modificare la cultura della gente che deve capire, attraverso le testimonianze di chi il fenomeno lo conosce bene, di quali nefandezze sia capace la ndrangheta. Parlare con le persone, soprattutto con i giovani, e fare comprendere loro che occorre cambiare atteggiamento, occorre rendersi conto che solo attraverso un comportamento più consapevole ed intransigente, che non sia connivente con chi sta inquinando l’intera nostra economia, potrà avviarsi il vero contrasto nei confronti della criminalità organizzata. C’è un episodio o una riflessione che ha deciso di includere nel libro e che considera particolarmente significativo per comprendere la sua esperienza professionale? La protagonista del romanzo è Rosa, ma l’altra figura importante è rappresentata dal magistrato donna che, con la fermezza e la sensibilità che solo una donna può avere, conduce Rosa nella direzione giusta. Daniela Rovida è un magistrato che ama il proprio lavoro e che ama la Calabria. Studia le persone, le analizza e cerca di arrivare ai sentimenti. Nella mia esperienza professionale ho cercato di usare lo stesso metodo. Crede che la narrazione della sua esperienza possa essere uno strumento per avvicinare i cittadini e soprattutto i giovani alla cultura della legalità? Io credo che sia necessario che la gente, e soprattutto i giovani, comprendano che lo Stato non è qualcosa di lontano e assente, ma che è pronto a rispondere alle loro richieste. Gli incontri nelle scuole e la narrazione di esperienze vissute è necessaria per avvicinarli alle istituzioni e, soprattutto, per fare comprendere che vivere nella legalità, nel rispetto delle regole, significa rispettare gli altri e quindi se stessi. La nostra legge fondamentale, la Costituzione della Repubblica italiana, riconosce i diritti fondamentali dell’uomo, quelli che la ndrangheta calpesta ogni giorno; ricordare ai giovani, attraverso le esperienze vissute, che vivere nella legalità significa avviare un cambiamento nella nostra società che porterà alla sconfitta nella organizzazione criminale oggi più potente, è un compito che, io credo, le istituzioni dovrebbero assumersi con grande impegno. Guardando al futuro, quali passi ritiene necessari per migliorare l’efficacia della giustizia nel contrasto alla mafia e per favorire una cultura della legalità nelle nuove generazioni? La nostra legislazione antimafia è certamente una buona legislazione che molti altri paesi ci invidiano; alle mafie sono stati inferti, negli ultimi anni, colpi importanti ma, malgrado tutto, le organizzazioni criminali, e la ndrangheta in particolare, continuano ad essere forti e invasive. Sono state in grado di adattarsi ai tempi che mutano, sfruttando a loro vantaggio le nuove tecnologie; sono state in grado di insinuarsi nella economia, di diventare invisibili e di operare a livello globale, avvantaggiandosi dell’aiuto di professionisti che sono al soldo delle organizzazioni.  Lo Stato deve operare ogni sforzo per anticipare le mosse della ndrangheta, dotandosi delle migliori professionalità e della strumentazione più avanzata; ma non basta ancora, perché le mafie sono frutto di una cultura distorta che ha favorito la corruzione e le connivenze. La strategia della corruzione ha consentito alla ndrangheta di insinuarsi all’interno delle istituzioni, con violazione delle regole sugli appalti, ad esempio, puntando sulla avidità umana che calpesta i diritti altrui e produce gravissimi danni alle imprese sane e, di conseguenza, alla economia pulita. Cultura della legalità, allora, diventa sinonimo di rispetto delle regole, per favorire l’avvio di una nuova stagione che abbia come obiettivo l’emersione di una nuova società più consapevole e, per fare questo, dobbiamo davvero puntare sulle nuove generazioni.

Marisa Manzini è una magistrata italiana, attualmente Sostituto Procuratore Generale presso la Procura Generale della Repubblica di Catanzaro. Nata il 17 novembre 1962, ha conseguito la laurea in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano nel luglio 1987, discutendo una tesi in diritto civile dal titolo “La trascrizione del contratto preliminare”, con relatore il prof. Giovanni Cattaneo. Dopo aver collaborato con il prof. Cattaneo come cultore della materia e aver svolto il ruolo di Vice Consigliere di Prefettura presso la Prefettura di Novara dal 1989 al 1991, è stata nominata uditore giudiziario con DM 3.12.1991, svolgendo il tirocinio presso il Tribunale di Torino. Nel 1993 ha iniziato la sua carriera richiedente come Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Lamezia Terme, dove ha condotto importanti indagini contro la ‘ndrangheta, in particolare sui delitti di estorsione ai danni di operatori economici. Durante la sua permanenza a Lamezia Terme, ha ricoperto più volte le funzioni di Procuratore della Repubblica facente funzioni. Successivamente, ha prestato servizio presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Catanzaro, occupandosi della criminalità organizzata nel circondario di Vibo Valentia. Dal 2015 ha ricoperto l’incarico di Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Cosenza.

Oltre all’attività giudiziaria, Marisa Manzini è autrice di diversi libri incentrati sulla lotta alla ‘ndrangheta e sul ruolo delle donne nelle organizzazioni criminali. Tra le sue opere si annoverano:

– “Fai silenzio ca parrasti assai” (2018)

– “Donne custodi, donne combattenti” (2022)

– “Il coraggio di Rosa. Storia di una donna che ha ripudiato la ‘ndrangheta” (2024)

Attraverso questi scritti, la dottoressa Manzini offre una profonda analisi dell’universo femminile all’interno della ‘ndrangheta, evidenziando sia il ruolo tradizionale delle donne come custodi dei valori mafiosi, sia i casi di ribellione e distacco dall’organizzazione criminale. La sua dedizione nella lotta alla criminalità organizzata e il suo impegno nella promozione della cultura della legalità, soprattutto tra i giovani, hanno reso Marisa Manzini una figura di spicco nel panorama giudiziario italiano.

*Regina Resta, presidente Verbumlandiart