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Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine

Teodato Albanese è un avvocato di Cerignola, in provincia di Foggia. Da giovane, amico di Alessandro Pavolini, si è iscritto al Partito Nazionale Fascista e ha aderito ai Gruppi Universitari Fascisti. Poi, però, dopo lunghi soggiorni in Inghilterra e in Francia, matura convinzioni antifasciste e dopo l’armistizio entra a fare parte dell’Unione nazionale della democrazia italiana. Viene arrestato dalle SS il 26 gennaio del 1944 e il 24 marzo, a 39 anni, viene trucidato alle Fosse Ardeatine. Michele Bolgia, romano, di statura modesta, scuro di carnagione, stempiato. È un ferroviere e lavora come guardasala nella stazione Tiburtina. Un suo antenato ha partecipato alla spedizione dei Mille ed egli stesso ha combattuto la Prima guerra mondiale nel genio. Dopo l’8 settembre aderisce a una cellula clandestina di finanzieri, tra i quali Antonio Ambroselli, e riesce a fare evadere trecentocinquanta deportati napoletani da un convoglio in transito. Poi, in altre quattro diverse circostanze, insieme ai suoi sodali riesce ancora ad aprire i portelloni dei carri merci diretti nel Reich e fa scappare oltre un migliaio di giovani rastrellati a Roma. Arrestato l’11 marzo del 1944 è anch’egli tra le vittime delle Fosse Ardeatine. Ferdinando Agnini, invece, al momento dell’uccisione ha diciannove anni. Era uno studente di Medicina, nato a Catania e trasferitosi a Roma intorno agli undici anni con la famiglia, in fuga dai fascisti locali.

Nelle Fosse Ardeatine, cave di pozzolana lungo la via Ardeatina nei pressi di Roma, il 24 marzo del 1944 i tedeschi uccisero 335 uomini, tra i 15 e i 74 anni. Si tratta di prigionieri politici di tutte le varie organizzazioni antifasciste, di ebrei, di detenuti comuni, di civili rastrellati nelle ore precedenti, uccisi come rappresaglia, in proporzione di 10 a 1 (più cinque, per errore), per l’attentato partigiano compiuto il giorno precedente in via Rasella e costato la vita a 33 soldati tedeschi. La rappresaglia venne affidata al capo delle SS a Roma, Herbert Kappler al quale si deve l’ordine ai suoi uomini di sparare un solo colpo alla nuca, che passando per il cervelletto, raggiungesse il cervello della vittima, in modo che nessun colpo andasse a vuoto e la morte fosse istantanea. A sovraintendere alle operazioni c’è il capitano delle SS Erich Priebke, il quale chiama cinque persone per volta i quali «vengono fatti inginocchiare sul cumulo dei cadaveri di coloro che li hanno preceduti e, ricevuto il colpo, cadono ammassandosi».  

Se i fatti salienti dell’eccidio nazista sono tristemente noti, merito del saggio di Mario Avagliano e Marco Palmieri Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine (Einaudi editore) è quello di avere concentrato la propria attenzione sulle biografie di ciascuna vittima. Abbiamo così, per la prima volta, una ricostruzione organica e minuziosa della vita di ciascuna vittima di quell’eccidio divenuto presto il simbolo della Resistenza italiana. Una ricostruzione che, raccontando la storia di quelle vittime, una per una, nel complesso ci restituisce uno spaccato vivido della storia sociale, politica, economica e culturale dell’Italia in quel tragico periodo. 

*Raffaele Messina, scrittore