Conoscere la poetica di Alfonso Gatto
Poeta dalla giovinezza e dalla maturità inquiete e irrequiete
Ha lasciato scritto Giorgio Caproni che il poeta è come un minatore, un minatore particolare che scava nei recessi più profondi e impenetrabili dell’anima e, dopo aver tanto sondato e scavato, ritorna alla superficie con alcune splendenti pietre preziose. Definizione davvero calzante, questa, che fa pensare subito a minatori sommi come Dante e Petrarca, grandi come Leopardi e Montale e certamente non meno grandi come Alfonso Gatto, la cui opera è davvero una preziosa miniera purtroppo ancora poco conosciuta dal grande pubblico e dai giovani che frequentano le scuole. Ed è, questa, un’amara verità: Gatto non è sempre riportato nelle antologie scolastiche e quando lo è non viene sottoposto all’attenzione dei discenti, ai quali vengono fatti studiare gli autori più canonici del Novecento come Montale, Ungaretti, Saba e Quasimodo. Nel ricordare e rendere omaggio alla figura di Gatto a più di cinquant’anni dalla sua morte, vogliamo esprimere l’augurio e anche la speranza che, finalmente, questo grande poeta, alquanto dimenticato, possa avere quel pubblico vasto di lettori e conoscitori che certamente merita e che certamente lui vorrebbe meno distratti da tanto prevalere dell’effimero e più consapevoli della realtà della poesia, più consapevoli insomma – come si legge in Parole a un pubblico immaginario – che «la poesia è una realtà che accusa il lettore e lo pone di fronte alla sua distrazione».

Alfonso Gatto nasce a Salerno il 17 luglio del 1909. Nel 1926 si iscrive all’università di Napoli, prima alla facoltà di Giurisprudenza e poi a quella di Lettere, ma le difficoltà economiche non gli consentono di portare a termine gli studi. D’ora in avanti farà i più disparati mestieri ma la sua grande passione, il suo grande amore sono la letteratura e la poesia. Nel ’32 pubblica la sua prima raccolta, Isola, nella quale rivela una precoce maturità artistica che viene notata subito da Montale e da alcuni critici letterari. È l’inizio di un percorso che lo legherà, per parecchi anni, alla poetica dell’Ermetismo e in particolare a quello fiorentino, anche se il suo – come si vedrà meglio più avanti – è un ermetismo particolare che, pur seguendo i canoni fondamentali di una poetica che esalta la forza evocativa della parola, la sua purezza e la sua musicalità anche nel minimo frammento, potremmo definire idilliaco, fantastico e surreale. Dal ’39 al 1975 pubblica le seguenti opere: Poesie, L’allodola, La sposa bambina, Amore della vita, Il sigaro di fuoco, La spiaggia dei poveri, Il duello, Nuove poesie, La madre e la morte, La forza degli occhi, Poesie, Osteria Flegrea, Carlomagno nella grotta, Il vaporetto, La storia delle vittime, Rime di viaggio per la terra dipinta, Poesie d’amore. La morte – quella morte da lui ossessivamente cantata nelle sue poesie – lo coglie di sorpresa l’8 marzo del ’76 a Orbetello (Grosseto), per un incidente stradale. Sulla sua tomba sono scolpite le parole di commiato che gli dedicò il suo amico Eugenio Montale: «Ad Alfonso Gatto per cui vita e poesia furono un’unica testimonianza d’amore». Parole davvero calzanti per un poeta che riusciva a fare poesia anche quando scriveva in prosa. Dopo la sua tragica morte (fino al 2008) sono state pubblicate le seguenti opere: Lapide 1975 e altre cose, Desinenze, Guida sentimentale di Milano, Parole a un pubblico immaginario e altre prose, La palla al balzo. Un poeta allo stadio e il Catalogo delle lettere ad Alfonso Gatto (1942-1970) in cui è possibile trovare nomi illustri come quelli di Bilenchi, Calvino, Pasolini e Ortese.
Non è certo agevole parlare di Alfonso Gatto, poeta dalla giovinezza e dalla maturità inquiete e irrequiete, segnate dalla penuria di denaro, da una pensosa malinconia e da una creativa sofferenza. Diciamo così perchè la sofferenza e la riflessione su di essa costituiscono uno stimolo potentissimo alla creatività e alla creazione artistica e poetica che, nel Nostro, è precocissima e di alto livello. Nella raccolta Isola Gatto rivela subito il suo grande talento e la sua maturità di poeta che ha una sua particolare Weltanschauung e la esprime attraverso la poetica dell’Ermetismo, avvalendosi delle tecniche utilizzate dagli ermetici (le analogie, le sinestesie, le metafore, i simbolismi e via dicendo) ma facendo capire che il suo è un ermetismo particolare. E di questo si accorgono subito Sandro Penna che parla di surrealismo e il critico Giansiro Ferrata che definisce surrealismo d’idillio quello di Gatto. Ed è come dire che in Gatto l’ermetismo non è allo stato puro ma è inquinato – felicemente inquinato! – di surrealismo, appunto, di fantastico e di idilliaco. Di idilliaco, certo più nell’accezione leopardiana piuttosto che in quella della Grecia classica: idillio come componimento che prende spunto da motivi paesistici, autobiografici, da scene e occasioni della vita anche quotidiana per poi dispiegarsi in meditazioni, sensazioni, ricordi, ecc. e, insomma, per dirla con le parole di Leopardi in «situazioni, affezioni, avventure storiche» dell’anima. E non, dunque, nell’accezione classica di componimento che ritrae scene di vita agreste e pastorale. Quando leggiamo le poesie di Gatto vi troviamo, infatti, scene di vita interiore ma anche scene di vita quotidiana con parole che parlano delle cose della gente comune e questo perché egli aspirava, come Saba, a vivere la vita degli uomini di tutti i giorni e a essere uomo in mezzo agli uomini. Consapevole, ormai, come gli altri grandi del Decadentismo francese, del Crepuscolarismo e dello stesso Ermetismo che il poeta non è più come un dio che vive nell’alto dei cieli ma «un uomo mortale» (l’espressione è sua), «un bambino che piange» (Corazzini), un uomo che non sa dare più risposte all’uomo comune e che, più di questo, si sente smarrito e sconfitto nella realtà in cui vive; una realtà con la quale vive in perenne e tragica disarmonia, accompagnato dal sentimento di una dolente e disperata solitudine le cui uniche compagne di sventura sono il vuoto e l’assenza (valga per tutti Montale).
È in questo quadro di sentimenti negativi, in questa negatività della vita e in questo male di vivere che la morte e la sera, insieme alla memoria, finiscono per diventare le vere protagoniste della poesia di Gatto, delle vere e proprie metafore, emblematiche di una poetica e di tutta una vita. Pur se surrealisticamente, fantasticamente, idilliacamente e anche con tono da canzonetta, come è stato rilevato, c’è da sottolineare che i temi fondamentali della morte e della sera (che appare sinonimo quasi foscoliano della morte: «forse perché della fatal quiete/ tu sei l’immago a me sì cara vieni…»), c’è da sottolineare, dicevo, che le parole morte e sera ricorrono ossessivamente nelle raccolte poetiche del Nostro. Gatto parla della morte come parla della vita e se questa può essere anche assente e arida, la morte è invece vitale (la «vitalità della morte»), entità terribile e terribilmente presente che, però, il poeta cerca di rendere meno spaventosa possibile e appartenente alle comuni e normali cose della vita proprio attraverso la sublimazione poetica, proprio, paradossalmente, rendendola protagonista del fare poetico.
«Quante volte mi fu vicina, quante/ la morte per sorprendermi…». E forse quello che Gatto più temeva era che la morte lo sorprendesse, che lo portasse via a tradimento, che lo colpisse alle spalle, a lui che provava un grande «desiderio di sopravvivenza» (sono parole sue) e che si chiedeva spesso se gli altri, dopo di lui, avrebbero guardato «questi colli e il mare» col suo «stesso sguardo», lo sguardo di un poeta che ha l’umiltà di dire a se stesso che: «Il poeta è un uomo mortale che vive con tutta la sua morte e con tutta la sua vita, nel tempo, e in sé si consuma e si sveglia, negli altri si popola e si chiama, e nulla possiede che non abbia già amato o perduto».
Parole che sono anche una dichiarazione di poetica, che ci dicono tutto su una visione del mondo e su una concezione della poesia. Ma se Gatto parla della morte e se la sera può esserne il correlativo oggettivo nell’accezione più ampia della parola, cioè nella pluralità metaforica a cui la parola si presta, in verità è della vita che vuole parlare, è la vita a essere indirettamente esaltata piuttosto che la morte. Perché se Gatto pensa sempre alla morte, in effetti è la vita a essere il suo vero chiodo fisso: la vita fatta di oblio, di male che «ci coglie d’un tratto», di paura, di terrore, di nulla, di morte, di guerra, di «pianto della vita», di «verde caligine del niente», di buio, di «vittime plaudenti», di pena, di sofferenza, di memorie tristi, assurde e laceranti, di «paura d’esser felice» ma anche fatta di luce, di pace, di stelle, di amore, di baci, di viaggi, di dolcezza, di splendide lune, di alberi, di strade dove passano uomini, donne e bambini, di mare e di cielo azzurri, di piazze, di giardini verdi, di chiese, di dolci estati, di meravigliose primavere, di uomini che sperano e che sognano.
A proposito di pittoricità cromatica delle poesie di Gatto va detto che essa deriva, e riesce bene, dal fatto che l’autore – come si è visto – è anche pittore. Sono tante le poesie di Gatto che ti danno la sensazione di vedere un quadro, così come sono tante quelle in cui respiri un’aura, un’atmosfera surreale, di estremo poetico disincanto e (per dirla con Bevilacqua) di sensi incantati. Ecco, per esempio, i versi conclusivi di Poesia d’amore: Tu vivi allora, tu vivi/ il sogno ch’esisti è vero…/ Ti stringo per dirti che i sogni/ son belli come il tuo volto,/ lontani come i tuoi occhi./ E il bacio che cerco è l’anima.
Dunque, poesia di grande intensità melodica, di grande musicalità come si diceva all’inizio il cui linguaggio e la cui parola sono ermeticamente allusivi, ambigui, oscuri e, spesso, come fuori dal tempo. Si avvertono nella poesia di Gatto influenze rimbaudiane ma anche pascoliane e non mancano echi crepuscolari, così come non sembra mancare la lezione dei grandi maestri a lui contemporanei: Montale, Ungaretti, Quasimodo e Saba. I critici hanno inserito la musicalità, la disposizione al canto della poesia di Gatto in una linea idillica meridionale che vede al suo apice le ariette di Salvatore Di Giacomo. Dopo il ’40 la poesia di Gatto cambia, però, alquanto direzione rispetto all’ermetismo di stampo fiorentino di cui si era nutrito. Se vi è sempre la disposizione alla canzonetta adesso prevale soprattutto l’impegno morale, civile e politico. Lo stesso Quasimodo, in questi anni di guerra mondiale e di Resistenza al nazifascismo, volta pagina e cessa di essere l’ermetico degli anni precedenti. Gatto, come Quasimodo, finisce per essere un ermetico sui generis, una sorta di compagno di viaggio dell’ermetismo anche se certi temi e certi motivi di fondo restano mentre adesso, però, avverte l’esigenza e l’urgenza dell’impegno civile, politico e anche ideologico, per cui centrale diventa la parola resistere: resistere al nazifascismo, resistere al male, a quella forza oscura «che ci invita a cedere» e a veder sconfitta la verità.
Insieme all’impegno per il rinnovamento della cultura italiana e per l’educazione del pubblico all’amore per la poesia e l’arte, adesso vi è anche quello per il rinnovamento della coscienza morale e civile degli italiani dopo il disastro della dittatura fascista e la catastrofe della guerra mondiale che si era conclusa con l’esperimento dell’atomica su Nagasaki e Hiroshima, alla quale dedica una poesia. Insomma, «con le armi della poesia» (direbbe Pasolini), Alfonso Gatto cerca di difendere (direbbe Vittorini) il «mondo offeso» dagli orrori… del mondo, lui che – come ha scritto Carlo Bo – «era fatto di poesia e per la poesia», lui che in Parole a un pubblico immaginario afferma – ed è anche una dichiarazione di poetica – che la poesia appartiene a chi non si difende.
«Se vi domandate», scrive Gatto, «perché un poeta scrive, e in che modo si è deciso a scrivere, se voi ricordate quel ragazzo seduto nella sua stanza diroccata, comprenderete perché la poesia appartiene agli uomini che non si difendono, che passano nella vita, senza appropriarsene, amandola anche per gli altri che credono di averla spesa o di poterla spendere senza mai riuscire nemmeno a destarla». Parole che narrano tutta una vita e che racchiudono tutta una visione del mondo legata a una tristezza e a una malinconia che vorrebbero appoggiarsi, ungarettianamente, a una «balaustrata di brezza», magari in una inquieta e assorta sera d’autunno.
Uomo e intellettuale dalla vita «così libera e indipendente» (Montale), Alfonso Gatto è poeta di rarissima sensibilità e umanità che ricordano quelle dell’amico Vasco Pratolini, col quale aveva in comune la povertà cronica e il vivere la memoria come miele e fiele. Una memoria sempre dolente e pensosa che contribuisce ad accrescere la sua inquietudine esistenziale e la lacerazione interiore, la lacerazione dell’anima che soffre non solo e non tanto per sé, per il proprio dolore quanto per quello degli altri, per il dolore del mondo. Di qui l’amore e il dolore della vita, di qui il motivo (sono parole di Gatto) della «nostra difficoltà di essere, cioè di esistere veramente». Tema, quest’ultimo, caro e comune a tanti scrittori e poeti vissuti nella temperie culturale del Decadentismo, nel cui alveo l’Ermetismo viene ricondotto da più di un critico.
Che Gatto si sentisse intimamente uno sconfitto, un vinto, una vittima, un disarmato della vita e della Storia che non si difende se non con le armi della parola alla quale affida il suo messaggio per i posteri, ce lo conferma un po’ tutta la sua opera e soprattutto una poesia, Le vittime, della raccolta del secondo tempo della sua attività poetica La storia delle vittime: «la storia fosse scritta dalle vittime/ altro sarebbe…». Ma non è così e, allora, al poeta non resta, malinconicamente, che chiudersi in disperata solitudine e concludere che: Tutta dolcezza e pianto/ vorresti le parole/ che chiudono da sole/ la verità del canto.
*Salvatore La Moglie, scrittore