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Arte e propaganda nello stalinismo

I regimi totalitari, “imperfetti” come il Fascismo italiano (ritenuti tali per via della presenza della Chiesa Cattolica) e “perfetti” come il Nazionalsocialismo tedesco e lo Stalinismo, hanno sempre influenzato e addirittura condizionato la realtà dei Paesi dove tali regimi si sono instaurati. È nota, infatti, la capacità da parte di leader autoritari e dispotici di informare la vita culturale, nei suoi molteplici aspetti, dei territori dominati sulla base di precisi orientamenti di tipo ideologico e di dominare il reale tramite politiche linguistiche, artistiche, sociali, motivate dal principio della fedeltà al regime. Pur nelle loro differenze contenutistiche, questi movimenti hanno generato concezioni estetiche analoghe e arti ufficiali simili, caratterizzate da elementi comuni: la consapevolezza di creare una nuova e superiore era nella storia dell’arte; l’idea di poter incarnare lo spirito di partito tramite un’arte intimamente connessa all’ideologia di volta in volta sostenuta; la capacità di trasmettere un messaggio politico in modo diretto e facilmente comprensibile alle masse; il culto della personalità; la subordinazione della cultura a un unico obiettivo politico; il rifiuto di qualsiasi forma espressiva alternativa.

In Unione Sovietica l’età stalinista coincide con l’affermarsi del “Realismo socialista”, la cui origine viene solitamente ricondotta al 1932, quando venne promulgata la risoluzione “Sul riassetto delle organizzazioni letterarie” e fu creato un Comitato organizzativo per l’unificazione degli scrittori sovietici in un’Unica Unione (nata, poi, nel 1934, in seguito al Congresso degli scrittori sovietici). Il “Realismo socialista”, nuovo metodo critico che si ispirava ai principi di “verità”, oggettività rivoluzionaria, combattività, interessò non solo il campo letterario, ma anche quello artistico, perché la risoluzione del 1932 poneva le basi per la nascita di una nuova, unica arte, contrapposta alle molteplici esperienze precedenti (razionalismo, Avanguardie e costruttivismo in primis). Il 25 giugno del 1932 nasceva infatti, l’”Unione degli Artisti della Regione Moscovita”, i cui compiti erano strettamente legati a quelli politici: vi potevano aderire solo coloro che avessero seguito i principi del realismo socialista, i quali avrebbero così potuto plasmare i lavoratori ed educarli allo spirito del socialismo. In vista di tale fine, l’arte sovietica si sarebbe dovuta fondare sulla “verità oggettiva” e su una visione scientifica del mondo, elementi attraverso cui esprimere l’idea rivoluzionaria del regime in modo accessibile alle masse. In realtà, poi, tale verità non giunse mai a corrispondere a quella effettiva, ma fu sempre una creazione astratta e utopica, una finzione rassicurante, coinvolgente e attraente, ma lontana dalla vita di tutti i giorni. In tale contesto di mistificazione era essenziale la scelta dei temi pittorici, che venivano accuratamente selezionati dai membri dell’Unione sulla base di precise esigenze ideologiche. I più importanti avvenimenti storici del tempo erano l’oggetto privilegiato di trattazione da parte degli artisti, insieme alle celebrazioni di feste ed eventi legati alla storia più recente dell’Unione Sovietica. Alcuni esempi significativi sono offerti da opere di Nikolaj Karachan (1900-1970), come In piazza (1932) o Bandiera rossa (1944).

I. I. Brodskij, Ritratto di Stalin (1933). Mosca, Museo di Stato ROSIZO

Il carattere propagandistico dell’arte sovietica emerge non solo nei cosiddetti “quadri tematici”, ma anche nei numerosi ritratti dei capi o delle massime autorità del regime, vera e propria prova del culto della personalità praticato dai Dirigenti politici del tempo. Infatti, si riteneva che le immagini dei capi meritassero il primo posto nella profusione di materiali legati al governo e che, quindi, il compito principale degli artisti consistesse nello scolpire, nell’immortalare in tele monumentali, nel preservare per le future generazioni il grandioso personaggio del Capo. Ne è un esempio il ritratto di Stalin opera di Isaak Israelievič Brodskij (1884-1939), fotografo e artista dell’URSS, nel quale il compagno è raffigurato ispirato, contro uno sfondo rigorosamente rosso, colore simbolo del Comunismo.

Oltre alla pittura, conobbe grande diffusione in questo periodo il manifesto propagandistico, nato dal lubok di età leninista, assai praticato a partire dall’età post-rivoluzionaria per la sua facile accessibilità e la capacità di diffondere in modo immediato e diretto contenuti politici, economici e culturali. Oltre ai ritratti del leader, esso poteva presentare composizioni utopistiche e ingannevoli, volte a mostrare il regime come benefattore dell’umanità, fautore di un “Rinascimento Staliniano”, che si manifesta in immagini e slogan artificiosi; ciò accade, ad esempio, nel manifesto recante la scritta “Grande Stalin – bandiera dell’amicizia (pace) dei popoli dell’Unione sovietica”. Qui tutti i rappresentanti delle terre sottoposte all’URSS portano, lieti e riconoscenti, fiori al loro Capo, che li accoglie benevolo e felice di cotanta sudditanza; sullo sfondo, schiere di bandiere rosse issate a ricordare e celebrare anch’esse il loro unico, indiscusso leader.

Valentina Motta