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Quando il calcio perse il suo romanticismo: un anno senza Diego

Maradona, i tributi e le tante domande senza risposta

di Roberto Sciarrone

Un anno senza Diego. Il calcio senza Maradona ha perso il suo romanticismo e dopo dodici mesi la sua morte è ancora avvolta nel mistero.

Tante le domande senza risposta che partono proprio dall’ora del decesso, ritrattata più volte e ancora non definita. La dichiarazione ufficiale di morte è stata data alle 13.16 (ora locale in Argentina) ma in realtà Diego era già spirato. A differenza della prima versione che datava il decesso alle 12 ora locale dopo la colazione, magistrati e periti hanno ipotizzato che l’ex Pibe ha esalato l’ultimo respiro intorno all’alba. Dopo quanto tempo sono arrivati i soccorsi e quando sono stati effettivamente chiamati? Le ricostruzioni delle conversazioni dal centralino hanno già fatto luce su questo aspetto: i soccorsi sono arrivati dopo circa 12 minuti e non una mezz’ora abbondante. Chi c’era accanto a Maradona durante il giorno? E perché era stato lasciato da solo tutta la notte? Considerati i problemi cardiaci perché in casa non c’era né un defibrillatore né uno specialista per il pronto soccorso? E poi c’è il medico Luque che non si sa bene cosa abbia fatto per curarlo e salvarlo, il cocktail di psicofarmaci somministrato e le dimissioni sospette, due settimane prima della morte, dopo l’operazione alla testa.  Perché è stata presa la decisione di portarlo a casa? L’idea che emerge è che Maradona sia stato, in buona sostanza, portato a casa a morire. “Si poteva salvare”, è la tesi filtrata dai magistrati se fosse rimasto in una struttura specializzata. Il controllo cardiovascolare non è mai stato fatto in maniera completa.

Oggi 25 novembre, un anno dopo la scomparsa, il ricordo indelebile di Maradona gonfierà i cuori di chi lo ha amato, da Napoli a Buenos Aires, il ricordo di un campione tra poesie, canzoni, libri, spettacoli teatrali, murales e statue in bronzo.

Di seguito l’articolo scritto un anno fa.

E’ andato a restituirgli la mano? Chissà. “El Diez”, “Pibe de Oro”, semplicemente Diego Armando Maradona si è spento oggi, 25 novembre, come George Best. Il genio sopravvissuto a se stesso e a mille battaglie, l’uomo del barrio, sempre pronto a caricarsi sulle spalle tutto il dramma di una vita vissuta al massimo, eterno per i suoi goal e per quel suo sguardo un po’ melanconico, come la musica della sua terra: “Il tango è un pensiero triste che si balla” diceva il musicista argentino Enrique Santos Discépolo.

Il numero 10 per eccellenza che ha illuminato per una decade e più il calcio mondiale vincendo coppe e trascinando interi popoli – come quello napoletano e argentino – alla gloria sportiva e al riscatto sociale. Pochi giorni fa la “sua partita” Napoli-Milan scontro che negli anni ’80 rappresentava due filosofie di calcio: da un lato il genio rappresentato da Maradona dall’altro un esercito perfetto e coordinato, il Milan di Arrigo Sacchi. Se ne va così, dopo aver compiuto 60anni ed essere stato inondato di auguri, dopo essere stato dimesso dall’ospedale per una complessa operazione al cervello.

La storia di una leggenda che emoziona ancora. In ciò che faceva mostrava tutto il suo universo, il suo destino, la sua storia personale divenuta riscatto di una città, di un paese intero, di un mondo tutto suo. Maradona, nel campo come nella vita, non poteva essere una “casella” di un “modulo”, no, Maradona era una “filosofia”, di calcio, di campo, di vita. Era l’ingrediente segreto, la magia che diventa realtà e si mostra agli umani in tutta la sua bellezza, eleganza e sfrontatezza. Maradona era tutto e il contrario di tutto, “riempiva” se stesso e chi lo circondava, li vedeva, li includeva e ne assumeva i difetti, per loro segnava e vinceva, spesso da solo contro tutti: un supereroe con il numero 10.

Re e popolo, ogni sua conquista appariva precaria, aveva dentro l’insicurezza dell’uomo, inebriato e via via consumato dal compito suo destino, bruciato a poco a poco dalla genialità che non ha saputo conservare per godere di una vecchiaia migliore. Sopravvissuto a se stesso ma emarginato dalla serenità, la rabbia – sua amica – l’aveva coltivata da sempre, vissuta e calpestata, alla ricerca di quel riscatto individuale che divideva per tutti, i compagni di campo e al suo popolo, ai napoletani. Il Napoli e il Milan degli anni ’80 come l’Alfa e l’Omega di mondi diametralmente opposti, il primo tutto spirito il secondo più fisico, soffocante, atletico: un esercito compatto e apparentemente imbattibile che Diego riuscì a ribaltare spesso svolazzando tra i Gullit e i Rijkaard, tipi tostissimi.

Maradona ha portato fiumi di felicità lì dove c’era disperazione tracimante, nel decennio del terremoto, dei soldi per la ricostruzione fagocitati da mafie e politica, al tempo dei Gava e dei Don Raffaè, El Diez fu il messaggio più potente di riscatto che Napoli seppe lanciare al resto del mondo. La città, il suo invidiabile skyline, dove il Vesuvio la fa da padrone, divennero il centro di tutto, delle meraviglie più assortite e delle conquiste più impensabili, sportive e quindi sociali. Tutti si sentivano invincibili e questo status si rifletteva nella società napoletana che nascondeva i vecchi vizi sotto una patina di bellezza superiore, senza fine. La fine come l’inizio, difficile. Le scelte di vita, gli errori che lo rendevano umano hanno fatto il resto della storia.

Maradona è tutto in una partita, probabilmente, Argentina – Inghilterra, quarti di finale di Messico 1986, quando segnò una rete considerata il “gol del secolo” ondeggiando con la palla tra i difensori inglesi, e un gol con la mano (mano de Dios). Maradona iniziò a giocare a calcio nella squadra del padre, l’Estrella Roja, di cui Diego era il talento più apprezzato, passando poi all’Argentinos Juniors di Buenos Aires, con lui in rosa la squadra giovanile raggiunse una striscia di 136 risultati utili consecutivi. Maradona iniziò la sua carriera da professionista nell’Argentinos Juniors nel 1976, debuttando con la maglia numero 16 il 20 ottobre nella partita contro il Talleres, dieci giorni prima di compiere sedici anni, il più giovane di sempre a esordire nella prima divisione argentina. Nel 1979 e nel 1980 vinse il Pallone d’Oro sudamericano, il premio che spetta al miglior giocatore del continente, sempre nel 1980 mise già a segno uno dei più bei gol della sua carriera nella partita contro il Deportivo Pereira disputata il 19 febbraio. Trasferitosi al Boca Juniors nel 1981, segnò 28 gol in 40 partite guidando il Boca Juniors alla vittoria del Campionato Metropolitano di Apertura 1981. Il 5 giugno 1982 diventò un giocatore del Barça dell’allora presidente Josep Lluís Núñez e poi il Napoli5 luglio 1984. Presentato ufficialmente allo stadio San Paolo fu accolto da circa ottantamila persone, che pagarono la quota simbolica di mille lire per vederlo: apoteosi. Arrivarono due scudetti, 1987 e 1990, e tante coppe, oltre alla vittoria ai mondiali del 1986 con l’Argentina e al secondo posto nella finale di Roma ad Italia ‘90.

La prima vita di Diego resta immortale, fulgida e dissoluta, conclusa nel 1994 quando ai mondiali americani venne trovato positivo all’antidoping. Quel giorno, dopo il famoso urlo nella telecamera che era un ruggito, il verso dell’animale nuovamente re di ogni foresta e di ogni savana, Diego Armando Maradona cominciò la sua morte prolungata, una discesa costante e lenta. Quando si comincia, non si finisce più. Anche di morire, a volte, non si finisce più. Ma se sei stato Maradona, cosa potrai mai essere dopo? Cosa potrai chiedere di più?

La seconda vita (ma che vita era?) di Diego lo ha visto sedersi su diverse panchine – tutte improbabili – anche se portò l’Argentina ai quarti nei mondiali sudafricani dieci anni fa, pare un secolo fa. Nulla, di questa sua seconda vita coerente col disastro di sé, ha avvicinato l’estasi della prima. Sempre danzando sul confine tra una vita smarrita e una morte scontata vivendo, come avrebbe detto il poeta.

In questo caso però la poesia era lui.

Roberto Sciarrone

Direttore responsabile di Verbum Press