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Femminilità e femminismo nelle scrittrici italiane tra fine Ottocento e Novecento (ultima parte)

Altra esponente della narrativa femminista italiana iniziata con Sibilla Aleramo è Fausta Cialente (1898-1994), che nel 1930, con il romanzo d’esordio Natalia, pone la problematica dell’emancipazione e della parità delle donne, in seguito approfondita da Anna Banti, Gianna Manzini, Laudomia Bonanni, Alba De Cespedes e dalle scrittrici siciliane Goliarda Sapienza (1924-1996), Laura di Falco (1910-2002) e Livia De Stefani (1913-1991), da segnalare sia per le notevoli capacità affabulatorie dei loro racconti di donne che parlano di donne sia per i loro contributi al tema del rapporto tra i due sessi, visto come componente del più vasto rapporto tra donna e società.                                          

Si differenzia dalle voci letterarie di questo primo femminismo storico, che mirava alla denuncia della subalternità delle donne e alla loro emancipazione tramite il lavoro e la parità dei diritti, la letteratura femminista degli anni Settanta e Ottanta che si sviluppa in concomitanza alle nuove istanze del movimento delle donne nato nell’area sessantottina. Obbiettivo del neofemminismo era la liberazione delle donne dalle strutture patriarcali della società e la conquista di un’identità femminile indipendente dal ruolo sociale. Alla riflessione di quegli anni molto contribuì la teoria psicanalitica, utilizzata nei gruppi di autocoscienza femministi per approfondire gli aspetti meno indagati del vissuto delle donne e la conflittualità tra sfera pubblica e privata. Le scrittrici italiane che espressero nelle loro opere le acquisizioni teoriche del neofemminismo elaborarono una poetica alternativa alla tradizione, rivoluzionando le forme e il linguaggio del discorso letterario e scegliendo contenuti ideologici coerenti con la nuova coscienza femminista.

Alla base dei romanzi Un quarto di donna (1973) di Giuliana Ferri, Un matrimonio perfetto (1975) e La condizione sentimentale (1977) di Carla Cerati, Due donne da buttare e La donna non è gente (1977) di Armanda Guiducci, Donne in guerra (1975) di Dacia Maraini, si pone l’assunto secondo il quale la questione femminile non è risolvibile tramite il lavoro o la battaglia per i diritti civili, ma prospettando la necessità di un radicale cambiamento economico e politico della società borghese contemporanea, dei suoi valori e delle sue gerarchie di potere. Nelle opere citate i personaggi femminili non cercano più la loro identità né nel matrimonio e nella famiglia, né nella conquista di un lavoro e di una dignità pari a quella maschile, ma si concentrano sulla vita privata, sull’ansia e la stanchezza che accompagnano la loro doppia presenza di figlie, mogli e madri nel mondo casalingo e di lavoratrici nella vita extra familiare, sulla contraddizione tra l’educazione paritaria che la nuova generazione ha ricevuto e il ruolo subalterno che vive nella quotidianità, sulle energie affettive e sessuali da dedicare all’equilibrio e alla soddisfazione dell’uomo con cui vivono e il personale bisogno di affetto e gratificazione. Il costante formulario tematico della letteratura neofemminista è supportato inoltre dalla convinzione che le difficoltà del vissuto femminile non siano isolate, ma collettive e che quindi escano dal privato e debbano invece essere considerate come regole sbagliate di un sistema sociale basato sullo sfruttamento dell’uomo e sulla subalternità della donna.

Nell’ambito della letteratura neofemminista si afferma Dacia Maraini (1936), prolifica autrice di opere narrative, poetiche, teatrali e saggistiche ispirate a temi esistenziali e all’impegno civile e ideologico. Nei suoi testi, dal romanzo d’esordio L’età del malessere (1963) al già citato Donne in guerra e alle raccolte poetiche Crudeltà all’aria aperta (1966) e Donne mie (1974), fino alle prove narrative maggiori, La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990) e  Bagheria (1993), emerge una sicura capacità di indagare la condizione della donna dando vita a figure originali e determinate. Le creature letterarie della Maraini, non più personaggi di donne ma portavoci della coscienza delle donne, sono inserite nel contesto di problematiche sociali o collocate in una prospettiva storica, come avviene nel riuscito romanzo che narra la sorte travagliata della nobile Marianna Ucrìa, ambientato a Palermo nella prima metà del Settecento. Diventata sordomuta a causa di un trauma infantile cancellato dalla sua memoria, costretta dalla sua famiglia a sposare a soli tredici anni il suo violentatore, un anziano zio che la rende madre di numerosi figli, dedita appassionatamente allo studio e dotata di grande sensibilità e coraggio nell’affrontare le tempeste della vita, Marianna, una volta vedova, si mette in viaggio con una fedele servitrice e finalmente soddisfa il suo bisogno di allargare i confini del suo piccolo mondo. La Maraini fa di Marianna Ucrìa una figura esemplare della soggezione assoluta della donna alle strutture patriarcali e alle regole sociali e nella seconda parte del romanzo riesce a raccontare in modo convincente la trasformazione di Marianna da vittima a vincitrice.

Alla generazione letteraria degli anni trenta appartiene Amelia Rosselli (1930-1996), una delle maggiori voci poetiche del Novecento italiano. Scoperta da Pasolini, che pubblicò una sua raccolta su “Il Menabò” nel 1963, la Rosselli ha una sua statura artistica autonoma, non legata all’attualità e alla diretta rappresentazione delle problematiche femminili, malgrado nell’“Inchiesta poetica” inserita nell’antologia Donne in poesia della Frabotta abbia dichiarato che “tra il suo concreto operare poetico e la sua ‘femminilità’ v’è sempre stato uno stretto interlaccio”. Nella sua consistente opera la prova più apprezzata è la raccolta Variazioni belliche (1964), in cui affiora l’importante tema femminile del vissuto familiare e si svela il marchio doloroso impresso alla sua vita dall’assassinio del padre Carlo (ucciso nel 1937 in Francia insieme al fratello Nello dalle milizie fasciste) e dal suo perenne pellegrinare da un paese all’altro, che influì sul carattere apolide e personalistico della sua poesia.

Testimone d’eccezione della storia, della società e del costume italiani della seconda metà del secolo, impegnata nelle lotte politiche e civili e nel movimento femminista, è Franca Rame (1929-2013), autrice teatrale e prima attrice delle commedie del marito, il Nobel per la letteratura Dario Fo, a cui il suo nome resta indissolubilmente legato da un sodalizio artistico iniziato negli anni Cinquanta e conclusosi con la sua scomparsa. La Rame, parlando del suo apporto al teatro di Fo, si definiva ironicamente “l’ultima schiava bianca”, alludendo ai gravosi impegni amministrativi, organizzativi ed editoriali che svolgeva nella compagnia, ma nella pubblicazione einaudiana delle commedie, in particolare nei volumi VIII, IX e XIII, il suo nome figura insieme a quello di Dario Fo come autrice e non più come curatrice delle loro opere teatrali. I libri citati raccolgono infatti i numerosi testi teatrali sulla condizione femminile nati su ispirazione della Rame, scritti a quattro mani con Fo dal Settanta al Novanta e raccolti in Venticinque monologhi per una donna (1989); Coppia aperta, quasi spalancata, e altre quattordici commedie (1991); L’eroina, Grasso è bello!, Sesso? Grazie, tanto per gradire (1998). Sono commedie, atti unici e monologhi che si sono imposti all’attenzione del pubblico internazionale conservando vivo l’ardore polemico del teatro dialettico e alternativo della coppia teatrale Fo-Rame, che affronta i nodi cruciali della società contemporanea con le armi dello smascheramento satirico. La galleria di ritratti femminili riuniti nei volumi citati e in altri copioni del ciclo “Parliamo di donne” è formata da donne calate nell’attualità, alle prese con difficoltà quotidiane e esistenziali verosimili, messe in scena in modo non convenzionale, ma usando la deformazione grottesca, il paradosso, la caratterizzazione stralunata. Qualche esempio delle donne ideate da Franca Rame può rendere più concreto l’approccio alle sue opere: un’operaia, sfruttata in fabbrica e in casa trattata come una serva dal marito, è così alienata dalla sua faticosa “doppia presenza” da alzarsi affannata per andare al lavoro, combinando un disastro dopo l’altro per la fretta per poi accorgersi che è domenica (Il risveglio); una casalinga ripropone la figura tradizionale della donna reclusa e subordinata a tutti gli uomini che la circondano. Sorpresa dal marito con un giovane amante che le ha rivelato piaceri sconosciuti, è condannata a vivere imprigionata in casa, subendo le insidie di uomini interessati solo al suo corpo. Il parossistico crescendo dei suoi tormenti la spinge alla rivolta violenta contro tutti i suoi oppressori (Una donna sola); una moglie tradita dal marito che le ha imposto la “coppia aperta” e la costringe ad accettare situazioni paradossali, è molto infelice e tenta più volte il suicidio, sino a quando non raggiunge un nuovo equilibrio. Trova un lavoro, si prende più cura di sé e accetta l’amore di un uomo più giovane e molto attraente. Scopre però che la coppia può aprirsi solo dalla parte del marito egoista e infantile, che reagisce con un’opprimente gelosia all’inattesa relazione della moglie, finendo col suicidarsi per sbaglio mentre finge di uccidersi per riavere la moglie solo per sé (Coppia aperta, quasi spalancata). Da questi toni ilaro-tragici la Rame passa a toni drammatici e amari nel monologo autobiografico di una donna violentata (Lo stupro) che racconta in dettaglio lo scempio che gli stupratori hanno fatto del suo corpo, lo sgomento che la bloccava, il dolore fisico, il disgusto e l’umiliazione che le erano rimasti addosso. Subìto lo strazio, la donna pensa con sdegno che in tribunale dovrà anche affrontare un interrogatorio che non servirà a condannare i colpevoli ma sarà “un lurido e sghignazzante rito di dileggio” contro di lei. Il giudice e l’avvocato difensore le rivolgeranno domande offensive e tendenziose, per dimostrare che la vittima di una violenza carnale può anche aver provato piacere e orgoglio nel sentirsi desiderata da tanti uomini. Un’ironia altalenante tra disincanto, pudore e delicatezza accompagna il lungo monologo Sesso? Grazie, tanto per gradire!, in cui la Rame insiste sulla necessità di fare educazione sessuale per combattere la disinformazione e l’ignoranza ancora tanto diffusi su questo tema. Si tratta quindi di un testo sull’amore, quello dei sentimenti e quello fisico, entrambi indispensabili per raggiungere un’intesa profonda nella coppia, spesso tormentata da problemi sessuali la cui origine è individuata sia nell’educazione trasmessa dai genitori ai figli, che spesso identifica il sesso con il peccato e la vergogna, sia nella mancanza di confidenza con il nostro corpo. L’approfondimento di entrambe le inibizioni offre all’autrice occasioni per sviluppare riflessioni utili e serie, frammezzate da divertenti battute e acuti calembour. Il monologo tocca quindi con inconsueta leggerezza e chiarezza problematiche contemporanee legate alla questione sessuale: lo stupro, la prostituzione, la diffusione dell’AIDS, l’importanza della prevenzione, le metamorfosi della nostra sessualità nelle varie età della vita. A queste parti riflessive, esposte sempre con equilibrio e senza scadere nella volgarità, si alternano digressioni comiche, come il delizioso racconto sul primo rapporto sessuale avvenuto sulla terra tra Adamo ed Eva, allora ignari e innocenti. La folla di figure femminili sorelle delle protagoniste dei testi sinora citati si afferma come un elemento portante nelle opere teatrali di cui la Rame è coautrice, trasformando profondamente sulla scena il ruolo del personaggio donna, non più marginale o funzionale alla situazione, come prevalentemente avveniva nelle fasi precedenti del teatro di Fo. Con le opere teatrali femministe ideate da Franca Rame l’indagine sul mondo della donna prende respiro e viene proposta a un pubblico vastissimo, in migliaia di repliche, contribuendo a elevare la questione femminile a una conquista di civiltà, a farne, come ha scritto Laura Venezia, un “filtro interpretativo di una realtà sociale, politica e culturale che finalmente non viene più letta ‘al maschile’.

*Lucilla Sergiacomo, scrittrice

Lucilla Sergiacomo