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Perché aspettiamo con ansia l’amica geniale?

E, nel cuore di febbraio, mentre il tempo è congelato dalla pandemia, il governo del Paese è al centro di scossoni e mutamenti, Firenze si riempie di cinema. Le lancette del tempo sono tornate alla fine degli anni ’60, dietro la macchina da presa c’è un regista come Daniele Luchetti. La verità dietro la magia? Il tanto atteso ciak per la terza stagione de L’Amica geniale (la serie basata sul successo mondiale della tetralogia di Elena Ferrante; la serie televisiva di Rai Fiction, Fandango, HBO e gruppo Fremantle) è scoccato. E la storia riparte da dove l’avevamo lasciata. Piazza della Repubblica, Signoria, Santissima Annunziata, piazza Santa Croce e – pare – Palazzo Vecchio, a Firenze, sono stati il set del primo “ritorno alla vita” di Lenù, coprotagonista e io narrante di romanzo e fiction. Lenù, venuta dal nulla con la sua Lila, l’una “amica geniale” dell’altra in un rione di Napoli stracciato da miseria e Camorra: Lenù, che nei primi episodi della terza stagione (Storia di chi fugge e di chi resta) è interpretata dalla giovane Margherita Mazzucco, prima che un’attrice più adulta e ancora innominabile le subentri per il prosieguo della serie.

Se facessimo un sondaggio-flash, scopriremmo che, sì, la saga di Elena Ferrante aveva fatto il suo giro nel mondo già solo come flusso silente di parole su carta e e-book: ma non sarebbe più un mistero che, in Italia come all’estero, le prime due stagioni della serie dirette da Saverio Costanzo hanno ipnotizzato anche i più scettici e trainato la curiosità dei lettori in quel mondo caotico, affollato, che racconta le stagioni partenopee del Dopoguerra attraverso gli occhi di due bambine, poi fanciulle e donne, infine anziane. Così diverse e inseparabili, unite dal filo dell’amore e del rancore reciproci. L’una luce riflessa dell’altra, l’una “ombra scialba” (dice il romanzo) dell’altra. L’apparentemente ligia e passiva Elena detta Lenù, figlia dell’usciere del municipio; la selvatica e imperscrutabile, indomita Raffaella detta Lila (Gaia Gerace, la sua interprete sul set), figlia del carpentiere. Il riscatto sociale che una sola tra le due rincorre e persegue; e l’evoluzione sanguinosa e vitale che l’altra compie più autenticamente, pur senza mai muovere un piede al di fuori di quell’ombelico fatiscente e barbarico che è il Rione.

La regia di Costanzo era stata capace di riesumare una cifra quasi neorealista: a cominciare dall’età degli attori, davvero bambini e adolescenti, arrivati quasi tutti “vergini” di fronte all’occhio sbarrato di telecamere che hanno saputo scomporre l’istante, dilatarlo, muovere oceani di atmosfere e fragranze colme di verità ma mai assenti di poesia. Così strettamente “territoriali” da aver costretto l’italiano alla modalità “sottotitoli” (la sceneggiatura era recitata per lo più in dialetto napoletano) e così universale da aver catalizzato generazioni e culture diverse. Come ogni tragedia che sia fatta di foschia dei sentimenti, frammenti di Storia e politica ben raccontati, soffi focosi e delicatissimi d’amore. Il vento della vita che spira su donne ghiacciate nella loro infanzia e già spose, già madri, prima dei vent’anni (è il caso di Lila, in particolare; ma sono precoci e feroci anche le esperienze vissute da Lenù, che cerca disperatamente di tenerle il passo a modo suo, con espedienti autolesionisti o scatti d’ala improvvisi e affrancamenti dolorosi).

Aspettative altissime, quelle su Daniele Luchetti, fresco della regia di Lacci: un film che, curiosamente, condivide con L’Amica Geniale un sottomondo densissimo. Anzitutto in quanto Domenico Starnone (l’autore di Lacci, il romanzo) ci pare in testa alla lista dei possibili nomi dietro la sibillina identità di Elena Ferrante; inoltre, per la presenza di Alba Rohrwacher (voce narrante nella serie L’Amica Geniale, protagonista a tutto tondo in Lacci… e chiamata in causa dai più per il ruolo di Lenù adulta, nella terza stagione della saga di Elena Ferrante). Aspettative sulle sue modalità di narrare, frantumare e raccogliere una storia intima che partirà dal clima sessantottino, torrenziale sia per i piani alti dell’Intellighenzia italiana, sia – lo vedremo – per i fermenti e i paradossi che sconvolgeranno il Rione, sempre sfondo e protagonista stesso de L’Amica Geniale. Una serie televisiva della quale abbiamo bisogno, almeno quanto ne abbiamo della lettura dei romanzi da cui è tratta. Perché è lo stato puro della bellezza, perché ha il potere di fidelizzare un pubblico tanto trasversale come non accadeva da decenni. Perché la prosa e il “cinema a puntate” possano essere esemplari. E ci accompagnino nel “ritorno alla vita” dentro e fuori dallo schermo.

*Simonetta Caminiti, giornalista

Simonetta Caminiti