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Un’Italia spaziale!

bolle spaziali

Se si parla di spazio, si parla di NASA (National Aeoronautics and Space Administration), è ovvio. Non si può pensare allo spazio senza considerare la NASA. Eppure io oggi non vi parlo di NASA. Vi parlo di ESA (European Space Agency), di ASI (Agenzia Spaziale Italiana), di INAF (Istituto Nazionale di AstroFisica). Cosa sono? La dimostrazione che l’Europa e la nostra Italia sono protagonisti quanto l’America nello spazio! Non ve lo sareste immaginato vero? 

Pensate che siamo stati il terzo paese al mondo, dopo URSS e USA, a costruire, lanciare e controllare un satellite (il San Marco 2, 26 Aprile 1967) con proprio personale dalla propria base di lancio, collocata a Malindi, in Kenya, in mezzo all’oceano (unica al mondo per questo). Questo grazie al programma “San Marco” ideato e portato avanti dal professore e generale del Genio Aeronautico Luigi Broglio, al quale è dedicato il Centro Spaziale ancora operativo a Malindi (Kenya), appartenente all’Università La Sapienza di Roma e all’ASI. Non male no? E da quel momento l’Italia non si è più fermata. 

Direi che è quasi d’obbligo partire con i nomi degli Astronauti Italiani che ci hanno guardato dall’alto. Il primo è stato Franco Malerba, 31 Luglio 1992, space shuttle STS-46 Atlantis, missione che ha portato in orbita uno dei satelliti della Thetered Satellite System, di progettazione e realizzazione italiana, che si sarebbe occupato di studiare l’alta atmosfera e il campo magnetico terrestre (anche grazie a questi studi il Global Positioning System, GPS, funziona alla grande!). Sempre per mettere in orbita uno di quei satelliti, partirono con lo shuttle STS-75 Columbia, Umberto Guidoni e Maurizio Cheli, 22 Febbraio 1996. Ancora Umberto Guidoni, non sazio di spazio, il 19 Aprile 2001, con lo shuttle STS-100 Endeavour, è stato il primo europeo ad abitare la neonata Stazione Spaziale Internazionale (ISS) costruita direttamente nello spazio (non so se vi rendiate conto della spettacolarità di quanto appena detto) a partire dal 1998 e abitata costantemente dal 2000. Il 25 Aprile del 2002, è la volta di Roberto Vittori che inizia la prima di ben tre missioni sulla ISS, due (2002,2005) con la sonda Soyuz e l’ultima nel 2011, con lo shuttle Endeavour STS-134. Durante quest’ultima missione installò sulla ISS, tramite il braccio robotico dello Shuttle, AMS-02, un rivelatore di raggi cosmici (particelle ad altissima energia) e materia oscura (quella materia che non possiamo vedere ma sappiamo che c’è). Il 23 Ottobre del 2007, Paolo Nespoli arriva sulla ISS con lo shuttle STS-120 Discovery, trasportando il Nodo 2, uno dei pezzi della ISS costruito – indovinate? – proprio in Italia. E’ tornato lassù anche nel 2010 e nel 2017. 

 Il 9 Luglio 2013, Luca Parmitano (missione ASI “VOLARE”) è il primo italiano ad effettuare una EVA (Extra Vehicular Activity), la cosiddetta “passeggiata spaziale” che proprio passeggiata non è, tanto che il nostro AstroLuca rischia la vita per un mal funzionamento del sistema idrico della tuta. E’ tornato lassù il 21 Luglio 2019, diventando il primo comandante italiano della storia della ISS (e portandosi dietro caponata e lasagne, da bravo siciliano). Il 23 Novembre del 2014, invece, Samantha Cristoforetti è la prima astronauta donna italiana ad andare nello spazio, sulla ISS, per la missione ASI “FUTURA”, raccontandocela tutta meravigliosamente sul suo blog “Avanoposto 42”. All’epoca non poté effettuare una EVA a causa della mancanza di una tuta della sua taglia (eh già! Ne parleremo!) ma tornerà lassù nel 2022 e magari sarà la volta buona. 

Tanta roba fin qua eh? E abbiamo parlato solo di astronauti. Dal 23 Aprile 2007, orbita intorno alla nostra Terra un satellite totalmente italiano (ASI, INAF, INFN e numerose aziende spaziali, come Thales Alenia Space e Telespazio), dall’ideazione alla realizzazione e al lavoro di analisi dati: si chiama AGILE (Astrorivelatore Gamma ad Immagini LEggero) e si occupa di studiare la radiazione gamma, la luce più energetica che ci sia, emessa dagli eventi più “potenti” dell’universo (esplosioni di stelle, dischi di accrescimento dei buchi neri, i raggi cosmici ecc ecc). Nonostante le sue piccole dimensioni (60 m3), ha fatto scoperte molto rilevanti nel campo dell’astrofisica delle alte energie, una delle quali gli è valso un premio molto prestigioso, il Premio Bruno Rossi, nel 2012. Ancora oggi continua ad inviarci dati che analizziamo giornalmente. E questi dati, pensate, AGILE li manda proprio al centro di Malindi di cui abbiamo parlato. Sempre nel campo dell’astrofisica gamma, sta nascendo in questo periodo l’ASTRI-Mini Array (Astrofisica con Specchi a Tecnologia Replicante Italiana), un insieme di telescopi che nel prossimo futuro rivolgerà lo sguardo ad energie ancora maggiori rispetto a quelle di AGILE. Sarà installato sull’isola di Tenerife ed il suo primo prototipo si trova sull’Etna, intitolato a Guido Horn D’Arturo, astronomo italiano che nel ‘900 propose la tecnologia a specchi-tassellati utilizzata nel telescopio. Il Team ASTRI è composto da personale di vari Istituti INAF e università italiane. Partecipano formalmente anche l’Università di San Paolo del Brasile/FAPESP e il North West University del Sud Africa. Ma di nuovo, è italiano il progetto ed italiana la gestione.

Ma non abbiamo finito. L’Italia è il terzo contributore dell’ESA, con la quale è all’interno di svariati progetti. Dalla sonda Cassini-Huygens, lanciata nel 1997 e dedicata a Saturno, collaborazione NASA, ESA e ASI, a GAIA (Global Astrometric Interferometer for Astrophysic, partita nel 2013), satellite dedito alla mappatura dettagliata della nostra Galassia. Dalla sonda Rosetta, che è riuscita ad “atterrare” su una cometa nel 2014, dopo 10 anni di viaggio, con un errore di pochi cm e nella quale c’erano ben tre strumenti italiani, ad ExoMars, missione doppia (una sonda ha raggiunto l’orbita marziana nel 2016, l’altra partirà nel 2022 per “ammartare”) di collaborazione ESA e Roscosmos (agenzia spaziale Russa), italiana per un 33%, che ha lo scopo di studiare bio-tracce su Marte. E arriviamo a Bepi-Colombo, collaborazione ESA e JAXA (agenzia spaziale giapponese) lanciata nel 2018 e diretta su Mercurio, con all’interno numerosi strumenti scientifici italiani, come Solar Orbiter, collaborazione ESA-NASA, partito lo scorso Febbraio, che si occuperà di studiare molto da vicino la nostra stella preferita, il Sole. E poi abbiamo il modulo europeo “Columbus” sulla ISS, dedicato agli esperimenti scientifici, ed al quale abbiamo contribuito attivamente, come al già nominato Nodo 2; italiani sono poi altri moduli temporanei utilizzati come stiva e trasporto (e dai nomi non nuovi, Michelangelo, Leonardo e Raffello) e la splendida cupola, dalla quale gli astronauti fanno le foto mozzafiato che vediamo in giro sul web. 

E poi c’è il Large Binocular Telescope (LBT), per le osservazioni ottiche, italiano al 25 %, in collaborazione con USA e Germania, ed il lanciatore VEGA (Vettore Europeo di Generazione Avanzata), collaborazione ESA-ASI, utilizzato la prima volta il 12 febbraio 2012, ideato, progettato e costruito in Italia (azienda AVIO), utilizzato per portare in orbita piccoli satelliti. L’ultimo lancio è stato proprio nello scorso giugno, e ha dato inizio ad un progetto di “sharing spaziale” niente male. E sto tralasciando tantissime altre missioni, ve lo assicuro.

Eh già, chi se lo immaginava vero? Il problema è che noi italiani non sappiamo assolutamente valorizzare le nostre capacità. Nella ricerca scientifica questo è un problema molto grave. Molti enti di ricerca sono finanziati dal governo, il governo è fatto di persone che dovrebbero fare l’interesse del popolo, l’interesse del popolo va stimolato ed alimentato. Ecco. Noi scienziati italiani non ne siamo proprio capaci. Pensate che soltanto da pochissimo tempo in Italia inizia ad essere obbligatorio, all’interno di un progetto scientifico, dedicare del tempo al cosiddetto “outreach” che altro non è che la divulgazione scientifica. E nonostante questo, ancora moltissimi scienziati non riescono a capirne l’importanza. Se solo riuscissimo a scendere dal nostro piedistallo inesistente e cominciassimo a far capire cosa facciamo, a cosa serve quello che facciamo e come funziona quello che facciamo, non ci sarebbe gran parte dello scetticismo verso la scienza che stiamo vedendo in questo momento. E se c’è nei confronti della medicina, per la quale non servono spiegazioni sulla sua utilità, figuratevi nei confronti dell’astrofisica e della ricerca spaziale. 

Attenzione, però: è ovvio che il passo andrebbe fatto da entrambi i fronti. Noi dobbiamo essere capaci di spiegare e coinvolgere ma, dall’altra parte, le persone non addette ai lavori devono essere pronte ad ascoltare ed imparare…e spesso, troppo spesso, oggi non è così.

*Martina Cardillo, ricercatrice IAPS

Martina Cardillo