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“Un mondo di stramberie” di Mario Rondi

In questo nuovo lavoro letterario di Mario Rondi (poeta e scrittore di Vertova, nella provincia bergamasca), Un mondo di stramberie, che precede una quindicina di volumi già pubblicati (da Corpo & poesia del 1979 al penultimo, Stramberie d’amore, 2019, intervallati da una mezza dozzina di racconti), sin dalle prime pagine si comprende di fronte a che tipo di poesia ci troviamo: quella con vena ironica, ai limiti del comico, giocosa e burlesca.

Suddiviso in sezioni, ben sette (Stortabanda; Stramberie; Nello specchio dell’acqua; Il regno di Stortabanda; Dedalo umano; La celeste dimensione; La morte a ridosso), già dall’incipit della prefazione di Sandro Gros-Pietro (che è anche l’editore di Genesi Editrice) leggiamo che il «racconto poetico di Mario Rondi, nell’accumulo degli anni e nel rinnovarsi delle forme, è tuttavia rimasto fedele alla nozione giocosa di una surrealtà che nello sviluppo della vicenda si trasforma via via e infine decade in perdita, caduta, disinganno o rinuncia» (p. 7).

E già, la surrealtà, nozione giocosa di surrealtà, ci dice ancora Gros-Pietro, che si dispiega fin nel campo del paradosso; un trapasso dal reale, in posizione antagonista alla quotidiana ordinanza. D’altronde, Rondi non è nuovo a questi ricorsi giocosi avendo dato alle stampe già diverse prove in merito: L’orto della gru (Manni, 2005); Il bosco delle fiabe (id., 2007); Ortolandia (Genesi, 2010); Il cartiglio del vento (Fermenti, 2018); Stramberie d’amore (Lubrina, 2019, con disegni di Beniamino Piantoni), senza dimenticare Gran varietà (Genesi, 2016), dove c’è un soggetto non facilmente riscontrabile in altri poeti, in altre poesie, e cioè gli ortaggi, veri elogi, in chiave ironica e giocosa a piselli, melenzane, insalate, carciofi, cipolle e cose varie. Rondi è uno dei poeti italiani più paradossali che ci siano oggi sulla “piazza”, nonché cultore di fiabe, usanze, filastrocche che hanno più di un legame con l’onirico, visioni e immagini che si determinano nei sogni. Anche lo scherzo, il giocare con un’impostazione chiusa e prevedibile della struttura poematica della tradizione, è un elemento da non trascurare.

La forma di questi testi che si dilatano tra il sonetto e l’ottava toscana, composizioni di ottonari (a blocco o suddivise in due terzine e un distico) in endecasillabi liberi, tra le più “serie” che ci presenta il Nostro; per es. come ne L’oltraggio della sezione “Dedalo umano” (Il fiato che t’insegue come una fionda / che sfida nell’azzardo resistenze / sempre incontrollate come sonda / del domani fiorito di valenze / sospese nella notte che sprofonda / nel ricordo di pugni, le violenze / della luce che taglia il paesaggio / e lascia quell’impronta dell’oltraggio, p. 113), ma anche con diverse rimazioni (AAAAAAAA), restando nella stessa sezione, de La luce: «La luce ci regala la speranza / del volo tra le onde della sera / che riveste il paesaggio con la danza / del cuore nel fermento di sincera / fiducia del domani nella stanza / dei sogni che colora di leggera / grazia le alucce della fata / con tutta la gioia che ci è data» (p. 99).

Paragonabili a delle brevi prose poetiche in rima, per lo più in ABCABCDD, Rondi non è nuovo a queste proposte poetiche, cioè al ricorso della rima, sulla scia dei “maestri” illustri Gozzano, D’Annunzio, Pascoli, Fortini che in fatto di rimare la sapevano lunga. D’altronde attraverso l’uso della rima abbiamo potuto conoscere i nostri più grandi poeti, «quelli che rimarono soavi versi, conferendo armonia alle parole con il suggello degli strumenti a loro più cari, consacrando  parole suggestive, parole che diventano tali anche in virtù della loro reciproca connessione» (Arianna Frappini, L’uso della rima all’interno della poesia, in “One Elpis”, blog)». Insomma, possiamo affermare che Rondi è ‒ come ci dice il prefatore ‒ «un Poeta in rima. Lui rima come Esteta: alla bellezza della forma ci tiene. Sembra quasi ci sia una deriva aristotelica, per cui è la forma a fare sì che un cane sia altra sostanza da un cavallo» (p. 9).

E vediamola più da vicino questa forma rimata. Prendiamo ad esempio la poesia Il domani: «Con gli occhi velati di timore / il professor Tartufo sempre prega / i santi per la grazia di un fiore / ma c’è molto mistero che lo lega / alla vita del matto con l’ardore / delle foglie sui rami che lo frega / nel gioco del domani che l’invischia / per questo sulle fronde sempre fischia» (p. 80). 

Qui la cifra è data anche dal comico, altra tradizione ben fondata nella poesia italiana. Secondo Alida Airaghi, «il comico, in tutte le sue variazioni (nonsense, satira, parodia, ironia, grottesco, paradosso, contraddizione, gioco di parole, lapsus, calembour, incoerenza lessicale) arriva a scardinare non solo le pretese ideologizzanti del testo, ma anche a neutralizzare le sue tonalità affettive, mettendo in crisi l’orizzonte di attesa del lettore» (Comico e poesia: 10 interventi sulla rivista Il Verri, in “Sololibri.net”, 15.4.2016). 

In Rondi il comico si manifesta attraverso la parodia, l’ironia e il paradosso. «È un’ironia che quasi sfiora la comicità della torta in faccia, del capitombolo per strada, del rotolamento per le scale: c’è disdetta e accettazione per il gesto infelice e per la gioviale convinzione di averlo compiuto, averci provato» (S. Gro-Pietro, pref., p. 8) e aver dato comunque un senso tra il significa e il significante, tra suoni e ritmi per una musicalità delle parole che cattura l’attenzione, fino a confonderci in un gioco di finzione che sempre più spesso si avvicina al ritmo di una filastrocca, non già per le rime ma per l’esposizione del soggetto, dell’andirivieni giocoso che troviamo in tutti i testi che fanno parte di questo volume. E come conviene ad una filastrocca, utilizzando parole assonanti e allitterate di estrazione popolare, simile alla poesia burlesca, per es. di Lodovico Leporeo: «Il fumatore d’oppio schiaccia l’occhio / e cancella le colpe coi tormenti / della notte funesta, col sorriso // che trapela dal dente d’oro, inciso / nella bocca ricolma di serpenti / che guizzano nell’aria sopra il cocchio // della strega che appresta sortilegi, / tracciando nella mente tanti fregi.» (La strega, p. 136).

Si arricchiscono, questi testi, di personaggi ricavati da ortaggi, animali, cose, dilatati fino al ridicolo (facciamo la conoscenza della “signora Tamburo”;  della “signora Zampilli; del “conte Polli; il “signor Mortaretti”; il “professor Tortina”; la “signora Pollastrina”; il “professor Cornetti”, etc.) che credono di poter controllare la propria esistenza, ma è solo una fallimentare illusione, che ci mostra in tutta la sua malasorte «cui alla fine dei conti dovremo cedere il nostro tesoretto di piccoli averi o semplicemente il fagotto delle speranze» (Gros-Pietro, p. 7). Ed è proprio così: la fine di ogni testo termina sempre (o quasi sempre) con la sorprendente malasorte, di cui sopra. Per es. «Ma quando finirà questo tormendo / tra le guglie del cielo infinito? / Dimmi quando ci sarà un momento / di quiete nella notte? È finito / contro il nero scoglio, con un lento / capogiro, il cuore striminzito / dalla paura e dolore della maga / che ora muta nel silenzio vaga» (p. 115).

Dicevamo del giocoso, del comico che Rondi fa suoi nella miglior tradizione del Novecento, a partire da Palazzeschi, una giocosità che nasconde amare sconfitte. Ma in questi versi non «vi è nulla di tragico nelle sconfitte che il Poeta racconta, perché si ricomincia sempre da capo con un nuovo sogno, un’altra divagazione. C’è sempre un nuovo giorno, c’è altra conquista da realizzare» (Gros-Pietro, p. 7). In fondo, secondo Palazzeschi, il dolore è transitorio mentre la gioia è eterna.

*Giorgio Moio, critico

Giorgio Moio