VerbumPress

Krabi. Il segno dello tsunami.

Intervista all’autore, colonnello e medico legale Carlo Maria Oddo. “Testimone dell’Inferno”

Era il 26 dicembre del 2004 quando uno dei più catastrofici disastri naturali dell’epoca moderna si scateno’ nell’Oceano Indiano, a ovest di Sumatra in Indonesia, causando centinaia di migliaia di morti. Un sisma di proporzioni enormi con un’energia equivalente a circa 52 miliardi di tonnellate di dinamite, un milione e mezzo di volte superiore alle due bombe atomiche. Il mare si ritiro’ per chilometri per poi abbattersi con una furia devastante sulle coste e sulla gente inerme con onde alte oltre 15 metri, distruggendo il litorale e l’entroterra. Intere città furono spazzate via. Nel volume “Krabi, il segno dello Tsunami” pubblicato da Armando Editore, il medico legale e Ufficiale superiore dell’Arma dei Carabinieri Carlo Maria Oddo racconta in prima persona l’esperienza vissuta in Thailandia, dove fu inviato per identificare le vittime italiane dello Tsunami. Krabi è il tempio dell’orrore, è’ il racconto di una missione durissima: un inferno in macabro contrasto con lo scenario paradisiaco e incontaminato, in quel periodo dell’anno affollato di turisti provenienti da ogni parte del mondo per le vacanze natalizie.  Migliaia di vittime innocenti private della vita in pochi attimi, senza un perché, se non quello della violenza imprevedibile della natura e del destino. Volti e corpi martoriati ai quali dare un nome, persone alle quali restituire la loro storia, i loro sogni e i loro progetti e poterli consegnare ai loro cari affinché venga data loro degna sepoltura, permettendo alle famiglie di poterli piangere. Attraverso una narrazione appassionante   e sincera, con estrema sensibilità e rispetto il medico, l’uomo, l’ufficiale Carlo Maria Oddo, “testimone dell’Inferno” accompagna il lettore in un viaggio dentro al dolore ma anche dentro la speranza, la solidarietà, il senso più profondo dell’essere umani.  Verbum Press lo ha intervistato. 

1 Colonnello Oddo, il racconto dell’esperienza dello Tsunami a 16 anni di distanza sembra essere quasi una catarsi.

Il motivo che mi ha spinto a scrivere il libro è stato proprio catartico. La necessità di liberarmi non del peso di quanto vissuto – che per me medico legale è stata una esperienza indubbiamente formativa dal punto di vista professionale- ma catartica nel senso di esternare le emozioni che nel corso degli anni si sono stratificate dentro di me fino a necessitare di dovere essere trasformate in parole da condividere con gli altri, che di questo evento hanno solo ricordi mediante la stampa ed i media.

 2 Nel libro racconta la passione per la medicina che aveva fin da bambino e la scelta di diventare un medico legale.  Eppure sembrano due strade opposte: una mira a dare una speranza di vita, l’altra guarda la morte in faccia. 

In effetti sembra così, ma io da bambino sapevo che avrei fatto solo il medico e nient’altro. Non sapevo neanche cosa fosse la medicina legale ovviamente. Peraltro durante gli studi universitari l’esame di medicina legale non mi aveva trasmesso passione, volevo fare il neurologo. Poi ho cominciato ad appassionarmi a questa branca della medicina, intesa come chirurgia del vissuto. Conoscere il perché di una causa di morte, leggere analizzando un corpo esanime, la sua vita e ripercorrere a ritroso il suo vissuto. L’esperienza dello tsunami mi ha fatto capire quanto sia importante per un sopravvissuto o per un congiunto, anche in condizioni violente in cui si è perso un affetto, sapere che qualcuno lo ha ritrovato ed identificato e quindi poterlo riavere con sé, anche solo per poter portare un fiore al capezzale o avere la certezza che sia stato comunque ritrovato.

3 Ma andiamo all’estate 2004, circa 5 mesi prima dello tsunami. Cos’ ha significato per lei la sua prima missione militare, a Nassiriya.

Nassiriya è stata la mia prima vera missione in teatro operativo. Sono una persona che ha sempre viaggiato ed ha fatto viaggiare le proprie figlie in giro per il mondo. Ritengo il viaggio l’investimento per sé ed i propri figli più costruttivo di altri. Sono affascinato dalla conoscenza ma quando mi è stato prospettato di partire per l’Iraq nel luglio 2004, avevo 39 anni e 13 di esperienza militare, mi sono inizialmente preoccupato per la mia incolumità. Sapevo a cosa andavo incontro, ero peraltro reduce dall’avere partecipato alle autopsie fatte nei confronti dei militari e dei civili vittime dell’attentato a Nassiriya nel novembre 2003 e mi rimasero impressi i corpi dei carabinieri dilaniati. Quando nella notte fra il 4 ed il 5 agosto del 2004 affrontai la guerra dei ponti, per un istante ho rivissuto la mia vita e mi sono immaginato come quei ragazzi. Il mio pensiero era rivolto alle mie figlie che all’epoca avevano 1 e 4 anni e non avrebbero potuto capire, rischiando di pagare il prezzo più alto. Ma poi ho subito reagito ed ho fatto prevalere la ragione. Certo pensavo a cosa facessi io lì il 4 agosto mentre i miei amici in Italia erano al mare o in montagna in vacanza ed io sotto il fuoco nemico ed amico. Ma anche da quell’esperienza ho cercato di trarre il meglio che si poteva dal punto di vista professionale: organizzai dei corsi di primo soccorso per i carabinieri della missione, aprii un ambulatorio medico dapprima per la popolazione militare e quindi per i loro familiari garantendo la visita medica e la terapia completa, quindi facendo attività di collaborazione con gli ospedali locali.

4 Quella notte del 27 dicembre 2004 fu chiamato in missione quale componente del DVI Italia (Disaster Victim Identification) per l’identificazione delle vittime. Pensava ad una missione di qualche giorno e invece… 

 Quei giorni ero in montagna al Terminillo con la famiglia con l’intento di rilassarci tutti dopo l’esperienza dell’Iraq e riconquistare quella serenità familiare di cui avevamo bisogno. Il giorno prima avevo preso accordi con un mio collega che ha casa anche lui al Terminillo e le cui figlie sono coetanee delle mie, per andare a fare sci di fondo. Messe a dormire le bimbe ricordo di essermi seduto dopo cena sul divano con mia moglie con una tisana calda in mano e di aver detto: “Meno male, mi sto finalmente cominciando a rilassare”. Non l’avessi mai detto. Fuori nevicava ed alle tre del mattino vengo svegliato dai carabinieri della stazione Terminillo che bussano alla porta. Preoccupato che fosse successo qualcosa ai miei genitori, in viaggio, vengo invitato a chiamare al telefono i carabinieri della compagnia di Rieti, quindi il comando generale. Nessuno sapeva nulla. Io col cuore in gola, oramai pronto ad una ferale notizia, paradossalmente, trovo conforto quando mi viene spiegato che dovevo partire il giorno dopo per effettuare una ricognizione in Thailandia a seguito dello Tsunami da poco avvenuto. Tsunami, parola oggi di uso comune, all’epoca a me e credo a molti lettori sconosciuta. Da lì l’inizio di questa avventura.

5 Quando è atterrato a Phuket l’impatto con la devastazione e la morte è stato quasi surreale. Migliaia di corpi da identificare, migliaia di persone con le loro storie e il loro vissuto. Un lavoro enorme e allo stesso tempo delicatissimo. Cosa ha provato in quei momenti?

Di questa esperienza ricordo tutto, ogni istante, ogni momento, compresi gli odori. Ecco quando siamo atterrati era il 29 dicembre perché noi partimmo da Roma il 28 e facemmo scalo tecnico ad Abu Dhabi ed il giorno dopo partimmo per Puket. Sapevo che sarei rimasto pochi giorni, il tempo di rendermi conto di cosa fosse successo. Le notizie in Italia arrivavano frammentate, non si aveva contezza di nulla. Anche la nostra missione all’inizio era al buio. Si parte e poi si vedrà. Eravamo dieci carabinieri, io unico medico legale, tutti molto eccitati perché sapevamo che ci aspettava una situazione devastante e volevamo affrontarla col massimo della determinazione. Ricordo che una volta atterrati ed apertosi il portellone dell’aereo fummo travolti da un forte odore di morte e già in quel momento capimmo che dovevamo essere forti e non potevamo mollare o fallire. Ci venne incontro una dirigente della Protezione Civile che ci descrisse a parole la situazione, ci chiese quale fosse la nostra missione ed io ingenuamente dissi che eravamo venuti per fare una ricognizione (in cuor mio credevo che per capodanno sarei stato in casa con le mie figlie) e lei molto piccata mi disse “ E cosa siete venuti a fare allora”. Passata questa evidente incomprensione, giunti a Puket e resomi conto della devastazione fu un attimo capire che bisognava rimboccarsi le maniche e lavorare, lavorare, lavorare e che quel Capodanno 2005 lo avrei trascorso lì.

6 L’evento dello tsunami del 2004 è stato un disastro di proporzioni enormi, che fa riflettere sul rapporto tra uomo e natura, tra vita e morte, aprendo la strada a speculazioni filosofiche.

Il messaggio che ho voluto trasmettere nel mio libro è proprio un inno alla vita. Paradossalmente questa esperienza di morte mi ha reso ancora più attaccato alla vita ed alla sua bellezza. Ho detto che adoro viaggiare e che le mie figlie sono cresciute con il passaporto al seguito, già prima di questa esperienza, adesso sono ancora più convinto. Carpediem mi dico sempre. Vivi la vita intensamente ed ogni giorno come fosse l’ultimo e non dimenticare che il bicchiere è sempre mezzo pieno. Sono attaccato alla vita e questo evento mi ha trasformato. La morte mi faceva paura, adesso non più e tristemente sono diventato algido anche di fronte alla perdita di una persona cara. Non vado a nessun funerale per scelta. Preferisco ricordare la persona in vita. Ho un distacco con il morto che è difficile da spiegare.

7 Nel libro spesso fa riferimento alla necessità di sdrammatizzare per superare la tensione, per attaccarsi alla vita. Quanto è stato importante il rapporto con la sua squadra e con le altre divisioni internazionali con le quali ha lavorato a Krabi.

L’apporto del gruppo è stato fondamentale. Come dico nel libro, questa esperienza mi ha fatto sempre più attaccare alla vita proprio per avere toccato, nel vero senso della parola, la morte con le mani. Ricordo il momento di un mio crollo psicologico quando ho dovuto fare il riscontro diagnostico su una bambina di circa 4 anni, irriconoscibile dalla vita in su e completamente conservata dalla vita in giù. Avere preso quel corpicino ed avere visto quelle gambette identiche a quelle di mia figlia maggiore, mi ha fatto scoppiare in lacrime. Erano già più di venti giorni che lavoravo costantemente su una quantità infinita di salme e non ho retto al trasferimento di quella immagine su mia figlia. I colleghi si sono accorti di questo e con molto tatto mi si sono avvicinati e mi hanno ridato la forza. Ecco queste situazioni e questi contesti creano un connubio con la tua squadra per cui non esistono più gerarchie, ordini, gradi, ma squadra. Sempre nel rispetto dei ruoli ovvio ma si crea un affiatamento ed una simbiosi che anche una volta rientrati in Italia, a distanza di oltre 15 anni, ci sentiamo con molti di loro e sappiamo che tra di noi si è sviluppato un sentimento ed un legame che non si romperà mai. E’ stata formativa anche la collaborazione con le equipe provenienti da tutto il mondo, in particolare con i colleghi israeliani che erano i nostri team leader, alla luce della loro esperienza in mass disasters causa di frequenti attentati a casa loro. Ci siamo confrontati, sulla tecnica e sulle capacità ma ha prevalso al di sopra di tutto, il fattore umano. Tutti eravamo consapevoli che non era una gara a chi fosse più bravo ma era una lotta contro il tempo perché il nostro compito era identificare più persone possibili da riconsegnare ai propri congiunti.

8 Come si riesce a voltare pagina dopo un’esperienza così traumatica?

 Paradossalmente è più semplice di quanto possa sembrare. Onestamente una volta rientrato in Italia per diverso tempo sono stato carico di adrenalina e soprattutto era un continuo raccontare cosa avessi fatto e visto e questo mi era servito anche per alleviare la tensione e scaricarla. Nel tempo invece si è sedimentata in me tutta la tragedia vissuta. Quando uscì il film sullo Tsunami ovviamente sono andato a vederlo ed in quella occasione ho toccato con mano la mia fragilità emotiva non riuscendo a trattenere le lacrime nel rivedere, seppur in chiave cinematografica, quei luoghi e quelle scene. Da qui la necessità a distanza di anni di scrivere questo libro, come ho già detto, per liberarmi del mio carico emozionale. Quest’opera rappresenta per me un feticcio, un oggetto per me sacro con all’interno i miei sentimenti traslati su carta. E’ un viaggio esperenziale di chi ha avuto modo di vivere questa esperienza con gli occhi del medico legale, ma non è un libro tecnico o scientifico per professionisti, è un percorso di sensazioni e di vita.

9   Da ogni esperienza si trae un insegnamento. Cosa significa Krabi per lei, oggi.

Krabi per me è come ho intitolato, un segno indelebile che oramai porto con me ed è incancellabile. Ancora oggi a distanza di 16 anni se ripenso a quanto visto e fatto mi emoziono e se ripercorro alcuni episodi con chi ha condiviso con me l’esperienza non tratteniamo le lacrime. Però di sicuro è stata una esperienza che mi ha cambiato, credo in meglio, dandomi la capacità di sapere discernere cio’ che è veramente importante nella vita e come dico sempre di goderne ogni istante, anche delle piccole cose che la stessa ti presenta. La vita può essere crudele e priva di senso, come in quella tragica manciata di minuti in Thailandia nel dicembre 2004, ma anche ricca di bellezza e emozioni.

*Silvia Gambadoro, giornalista

Silvia Gambadoro