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Arsi vivi in nome della santa inquisizione

Il supplizio degli eretici a Messina

“Post condignam examinationem […] auctoritate nostra ignis judicio concremandus ut vel ultricibus flammis pereat, aut si miserabili vitae ad coercitionem aliorum elegerint reservandum, eum linguae plectro deprivent”: con queste atroci parole Federico II di Svevia “Stupor Mundi” promulgava a Catania, nel maggio 1224, l’orribile costituzione che per la prima volta comminava agli eretici l’estrema punizione del pubblico rogo. Contro costoro, anche in assenza di denuncia, i frati Predicatori ed i Minori – cui era affidata l’Inquisizione – potevano procedere d’ufficio e nelle “Constitutiones Regni Siciliae” l’imperatore stabiliva che essi eretici dovevano perdere i beni e la vita, “e la memoria dovea dannarsene”. Erano i primi passi della Santa Inquisizione in Sicilia che sarà istituita nel 1487, con la nomina del primo inquisitore, il frate domenicano Antonino La Pegna, inviato nell’isola direttamente dall’Inquisitore Generale di Spagna, il tristemente famoso domenicano fra Tomás de Torquemada (1420 – 1498) priore del convento domenicano della Santa Cruz di Segovia e confessore dei Re Cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona.

Messina, che già nel periodo della dominazione angioina (1222-1282) aveva più volte sperimentato nelle sue piazze i rigori degli inquisitori contro gli eretici (nel nome di Carlo D’Angiò era stato anche ordinato al Vice Segreto della città di confiscare i beni degli eresiarchi), al pari delle altre città siciliane divenne teatro di orrende pire che bruciarono carne umana e di solenni, macabre processioni che gli spagnoli, inventori del Santo Uffizio, chiamavano eufemisticamente “Autos de fè” (“Atti di fede”). Durante queste processioni veniva portato lo stendardo con lo stemma simbolo della Santa Inquisizione: una croce nodosa al centro e ai lati un ramo d’ulivo e una spada. Intorno, le parole Exurge Domine et judica causam tuam (“Sorgi Dio difendi la tua causa”), tratte dal Salmo 73 e con le quali si apriva la bolla di scomunica verso Lutero. L’ulivo stava a simboleggiare la misericordia, la spada la giustizia e la croce nodosa e gigliata il simbolo dei Domenicani. 

Si trattava, in sostanza, di un grande spettacolo di morte (durante il quale, sovente, venivano servite paste dolci e sorbetti alla nobiltà che dai palchi assisteva ai roghi, per “ritemprarsi dalla fatica”) che aveva per protagonisti i condannati a diverse pene e gli eretici impenitenti destinati a bruciare, costretti a sfilare in lunghissime processioni per le vie della città sotto lo sguardo avido e spietato dei popolani, nobili e clero. Vestiti di giallo e con beffardi, lunghi cappelli a cono in testa, subivano quest’ultima umiliazione prima di salire sul catafalco, dove si trovava la catasta di legna, pronta per ardere. 

I contumaci o morti prima dell’esecuzione della pena venivano “rilasciati” (“relassati”) al braccio secolare in statua. I catturati, in persona, per essere bruciati vivi.

Così si ricorda che nel solenne “Atto Generale di Fede” svoltosi il 15 agosto 1573 nella piazza Bologna a Palermo, un certo Bernardo Moreto, “[…] abitator di Messina, eretico che dicea l’anima morire insieme col corpo, negava il Paradiso, il Purgatorio e l’Inferno, perché ostinato fu relassato in persona […]”, cioè, bruciato vivo. Molto meglio andò a Don Eliseo Manzè dell’Ordine dei Benedettini, monaco nel monastero di San Placido a Messina, “[…] messinese apostata, fuggitivo, accusato della setta luterana” e a Leone Laganà, chirurgo messinese, “[…] testificato per Luterano e per aver pervertito ad altri, e molte moniali del Monastero di Montevergine di Messina le quali furono riconciliati”: il primo si rese uccel di bosco e il secondo era passato a miglior vita per cui, entrambi, furono rilasciati al braccio secolare, simbolicamente, in statua.

Alla fine del Quattrocento, quando dalla natia Spagna il Santo Uffizio s’insedia anche in Sicilia, contemporaneamente, si consolida la linea della più totale intolleranza e del rogo, sia in ambito protestante che cattolico, affermata nel trattato del “Malleus Maleficarum”. Nel secolo successivo, all’Inquisizione si affianca sempre più la tortura, ritenuta un mezzo efficace per conoscere la verità: sospensione a mezz’aria dell’inquisito, dalle mani legate da dietro; la stuoia sulla quale sta il prigioniero, trascinata a terra da un cavallo finché essa si consuma ed egli perde le carni a brandelli; l’attanagliamento con tenaglie roventi; il taglio delle orecchie e del naso; l’arrotamento; l’estirpazione degli occhi. E poi il rogo, che a Messina fu acceso nella piazza del Duomo il 12 maggio 1555 ai danni di Aguccio Giunta di Reggio Calabria. Processato nel 1553 quale penitente, insieme ad altri penitenti luterani come lui, tutti vennero assolti nell’”Auto da fè” che si svolse a Palermo il 18 giugno dello stesso anno. Ma il Giunta, ricadendo nello stesso errore e perciò dichiarato “impenitente”, venne bruciato vivo nel Piano della Cattedrale messinese, dopo che era stato rilasciato dal braccio secolare con sentenza dello Stratigò Don Pietro de Urries.

Altro rogo nella piazza del maggior tempio messinese venne acceso il 28 novembre 1586 e, in nome della Santa Inquisizione, tanti messinesi lasciarono la vita nei “solenni spettacoli” di Palermo, Catania e della loro stessa città. Chi confessava le proprie colpe, abiurava e si sottometteva alla penitenza ed alle pene inflitte, che poi non erano rose e fiori, veniva definito “riconciliato” e ammesso fra i “penitenziati” nel pubblico spettacolo.

In questa mania incendiaria, si procedeva per delitto di eresia perfino contro i morti, disseppellendone i cadaveri e bruciandone le ossa o l’effigie. Così, ad esempio, il messinese Francesco Schillaci luterano defunto, il 24 novembre 1563 subì l’ignominia del bruciamento dei suoi miseri resti mortali, a Palermo. 

L’ultimo degli eretici rilasciati al braccio secolare e ad essere bruciato vivo in Sicilia fu Antonino Canzoneri, di anni 58, dichiarato eretico, apostata, eresiarca e condannato al rogo dall’Inquisitore Generale, Cardinal Sigismondo Kollonitz. Nell’”Auto da fè” celebrato solennemente a Palermo il 2 ottobre 1731, il Canzoneri si disse pentito e implorò perdono. Ne ricadde nuovamente in eresia e arse nel piano di S. Erasmo, il 22 marzo del 1732. 

Da questa data sarebbero dovuti passare altri cinque anni affinché il Tribunale del Santo Uffizio in Sicilia venisse abolito e spenti, per sempre, gli innumerevoli roghi che le fiaccole dell’ignoranza e dell’intransigenza superstiziosa avevano acceso nelle piazze dell’Isola.

*Nino Principato, CdA Ente Teatro Vittorio Emanuele di Messina

Nino Principato